Accessibilità:
-A A +A
Print Friendly, PDF & Email

Operazione San Gennaro, ma cinquant’anni dopo

Opinionista: 

Nel bellissimo film di Dino Risi del 1966, quando Armando Girasole, detto Dudù, va a chiedere l’imprimatur a Don Vincenzo, classico uomo “di rispetto” all’antica rinchiuso nel suo dorato esilio carcerario, per “rubare” il tesoro di San Gennaro, Don Vincenzo gli chiede: «Ma San Gennaro... (a soldi) come sta?», gli risponde: «Più di 30 miliardi! ». Cinquant'anni dopo, fatte le debite rivalutazioni monetarie, vien da credere che quel celebre dialogo indica ancora oggi l'unica materia del contendere, in questa diatriba attuale che porterà davanti al Tar, Curia, ministero degli Interni e la Deputazione laica così fortemente voluta dal popolo napoletano sin dal 1527, dopo una pestilenza devastante. Fra sceneggiate politiche pre-amministrative, autocandidature di vecchi marpioni ed emergenti "mezzetacche", fra un ricorso all'usato sicuro invece del nuovo incerto e deficitario, in una riedizione mielosa del dramma politico "Padri e figli", i napoletani farebbero bene, anzi diventa imperativo, a rivolgere le proprie preghiere e questue a Gennarino "faccia ingialluta". L'unico Santo al mondo, figlio, fratello, compagno, amico e cumpariello, componente a pieno titolo del nucleo familiare d'ogni napoletano residente a Napoli e fuori dai confini, e per questo solidamente circondato e protetto dal suo popolo, contro ogni intromissione esterna, contro ogni tentativo secolare di annoverarlo fra quella schiera di Santi e affini, dei quali la Chiesa di Roma ama gestire la mirabile spiritualità e il culto redditizio, con managerialità molto poco religiosa. In quasi 500 anni, la Deputazione, operante dal 1601 sulla base dell'atto notarile del 1527, ha ottenuto costanti successi sui tentativi d'ingerenza politica ed ecclesiastica, finalizzati di fatto a sottrarne il controllo storico ed economico sull'ingente patrimonio - arricchitosi nei secoli, fino a divenire uno dei tesori, uno dei forzieri più capienti al mondo - tanto da ottenere riconoscimenti della propria autonomia e diritto a rappresentare il patronato del popolo napoletano con bolle papali, ultima quella di Papa Pio XI nel 1927, che negò la provenienza Apostolica al patrimonio del tesoro, frutto invece di donazioni palesemente laiche. In questi 15 giorni molto è stato scritto o enunciato a favore delle tesi contrapposte, dei diritti sacrosanti e consolidati, della normativa obsoleta ed ottocentesca, dell'anacronismo gestionale del ricco patrimonio del Santo - solo noi napoletani possiamo arrogarci il diritto di scrivere tale parola con iniziale minuscola, visto che stiamo parlando di uno di famiglia! - della pervicace ostinazione che prende ogni cardinale mandato a Napoli, quando si parla del "tesoro" da gestire, di un ministro che, invece di preoccuparsi della terribile escalation di sangue nella nostra area metropolitana, detta proclami sulla sicurezza e entra, non si sa perché, in una querelle secolare più materia di competenza vaticana, alla vigilia di un confronto elettorale che vede in grande difficoltà una specie di sinistra ed un centrodestra mummificato su figure già sfocate da antiche sconfitte, perciò, senza partigianerie, sarebbe meglio la scelta del silenzio, come dichiarato dal cardinale Sepe, in attesa di un pronunciamento del Tar, tralasciando citazioni bibliche. Il punto è l'eccezionalità del caso, che lo porta a non rientrare nel prospetto delle Fabbricerie, così care alla tradizione toscana, enti delegati al mantenimento e alla salvaguardia del luoghi di culto e tutti i loro corollari, senza indipendenza decisionale alcuna, e i 500 anni di indiscusso coinvolgimento popolare emotivo e sacrale, che a Napoli, caso unico al mondo, "protegge e preserva" San Gennaro, tanto da fare anche ricorso alle armi contro i frati di Montevergine nel 1497 per riaverne le spoglie, e chiedere ad un noto "guappo" dell'epoca di scortare il rientro del tesoro, custodito in Vaticano, nell'immediato dopoguerra. È fuori discussione che sia in atto, attraverso ordinanze ministeriali e carte bollate, una guerra di potere, che ha poco da condividere con la spiritualità e la devozione al culto di un Santo patrono non solo di Napoli, ma di una decina di altri comuni del vesuviano, in quella perenne dicotomia di amore ed odio che il nostro popolo dedica alle presenze immanenti nella sua vita felice e dolente: San Gennaro e il Vesuvio. Nè sfugge l'ingerenza al dibattito di personaggi, che sono pronti a cavalcare "l'indignazione dei fazzoletti bianchi" per motivi elettorali, dimenticando l'antico distacco scientifico o i continui giudizi di "paganesimo napoletano" resi sullo scioglimento del sangue di Gennarino. Ma ciò che offende il sentimento popolare è la sensazione profonda di una violenza, di uno spodestamento inaccettabile dell'unica prerogativa democratica, dell'ultimo privilegio di sovranità popolare, rimasto alla gente di Napoli, a quei "lazzari" ancora oggi, dopo 500 anni, chiamati a sedere con due loro rappresentanti con i nobili, nel Consiglio della Deputazione, fosse soltanto per una tradizione obsoleta e virtuale! Don Vincenzo, nel suo dialogo con Dudù, cinquantanni fa, commenta così l'idea di destinare al popolo il tesoro di San Gennaro: «Peccato che queste idee vengono solo ai guappi, ai sindaci mai... e poi...non mi pare che questi soldi restino a Napoli...». Siamo alle porte di una elezione amministrativa parcellizzata, cafona ed imbarazzante per il basso profilo e lo spessore culturale dei candidati, allora sventoliamo i nostri fazzoletti bianchi e invochiamo San Gennarino.