Accessibilità:
-A A +A
Print Friendly, PDF & Email

Procure della Repubblica, il potere sotterraneo

Opinionista: 

In una delle più inquietanti testimonianze rese da Luca Palamara nel suo “Il sistema” – un volume che aprì nel 2020 uno squarcio finalmente non ipocrita sulla vita della magistratura italiana – si legge che usasse conservare nelle Procure fascicoli d’indagini più o meno abbandonati che, alla bisogna, potessero essere riesumati o, al contrario, lasciati nel cassetto (questa l’espressione) a mo’ di docili utensili di cui servirsi in caso di “necessità”. In questa maniera, il potere sotterraneo delle Procure della Repubblica – non si sa quanto della Repubblica o quanto di chi colà vi manovra – può essere capace di straordinari condizionamenti. E sì, perché non è difficile immaginare quanto sia agevole indocilire uomini pubblici, sol che gli si prospetti l’avvenire d’un avviso di garanzia. Tenuto conto della definizione delle indagini, pressoché infinita, e comunque degli eventuali processi, la semplice prospettiva d’esser collocato agli onori delle cronache per una qualche pretesa e non necessariamente ben precisata colpa, può produrre il fulmineo incenerimento del malcapitato e d’ogni sua velleità. Dopo la denuncia del Palamara – una denuncia, ovviamente, tutt’altro che disinteressata, ma frutto del trasformarsi in vittima dell’autore un tempo carnefice – ampio s’aprì il dibattito, con toni per la verità da sordina, tenuto conto dell’infinita gravità di quanto in quel libro, spesse volte con molti riscontri, s’andava denunciando. Certo, lo scandalo d’un potere giurisdizionale che s’amministrava come un’accolta di consorterie tutte intese ad occupare le sue postazioni più influenti per servirsene a vario fine, vario ma scarsamente inerente con le finalità proprie della giurisdizione – vale a dire con il compito di correggere le deviazioni e punire l’illegalità – non poteva essere del tutto ignorato, almeno a parole. Il Presidente della Repubblica ne usò d’assai caute, parlando di “modestia etica”; altri si lasciarono un po’ più andare. E poi si parlò della necessità di riformare, di punire i colpevoli, di risanare l’immagine dell’ordine giudiziario. Ma, in effetti, di concreto s’è visto assai poco, poco più poco meno della non proprio irresistibile “riforma Cartabia”. Di concreto, la scorsa settimana s’è visto che proprio nulla è cambiato e che il potere politico non è in condizioni d’opporre alcunché. Cosa fino ad oggi del tutto inedita, mentre il Parlamento in seduta congiunta – vale a dire l’organo depositario della sovranità popolare e dunque la massima espressione dello Stato – aveva in corso le votazioni per la designazione dei componenti di sua competenza nell’ambito del Consiglio Superiore della Magistratura, è accaduto l’inimmaginabile. Un quotidiano, la Repubblica, ha pubblicato nella versione online la notizia di una vecchia indagine a carico dell’avvocato calabrese Giuseppe Valentino, già sottosegretario alla Giustizia e nome designato per il Consiglio Superiore della Magistratura da FdI, con buone prospettive di divenirne il vice presidente. Questa notizia pare sia sta enfatizzata al volo dal M5S di gestione contiana e l’elezione del reputato forense è immediatamente sfumata. Dell’indagine si sa poco o nulla, salvo che si riferirebbe a fatti risalenti ad un ventennio circa fa e che sembrava archiviata: o almeno tale risultava all’interessato che dopo alcune avvisaglie di vari anni or sono, nulla ne aveva più saputo. Sta di fatto che, improvvisamente risvegliatasi dal lungo torpore, la notizia è riapparsa, non si sa sino a che punto fondata, ed ha consentito di silurare il probabile vice Presidente del Csm. Un condizionamento così smaccato, sfacciato e grave dell’autorità del Parlamento – un condizionamento si direbbe volgare, che nemmeno si è attuato in forme riservate, ma è stato praticato addirittura interrompendo l’iter del voto delle Camere riunite – ancora sino ad oggi non s’era visto. Il fascicolo tirato fuori dal cassetto è caduto nell’aula di Montectorio, come una deflagrazione, facendo svanire d’un tratto intese, si suppone, faticosamente raggiunte. E senza nemmeno sapere esattamente per cosa fosse indagato il rispettato e qualificato avvocato calabrese. Una vicenda del genere prelude molto male. Il Governo in carica sarebbe impegnato per una riforma della Giustizia che dovrebbe pervenire alla separazione delle carriere, al ridimensionamento del ruolo dei Pubblici Ministeri, alla regolamentazione dell’uso selvaggio delle intercettazioni telefoniche, armi fumanti per distruggere la vita privata di persone invise a chissà chi. Ma se le premesse son queste – se è possibile interrompere l’ter del voto delle Camere riunite per nominare i componenti di un organo di rilevanza costituzionale sol perché si tira fuori da un cassetto d’una Procura la notizia imprecisata d’una imprecisata indagine – beh allora è all’evidenza che l’esperienza nel nostro Paese è qualcosa che non significa nulla. L’affaire Palamara nulla ha insegnato, i metodi di cui quel signore ci ha messo lucidamente a parte, facendoci respirare l’aere non proprio terso delle stanze e degli archivi delle Procure (somiglianti al Sid di delorenziana memoria) possono rimanere pacificamente immutati ed essere, anzi, impiegati con ancor più spregiudicatezza, sfigurando l’autorità di un Parlamento a Camere riunite, che s’accuccia ai piedi del dio pagano d’un avviso di garanzia. Un Paese che non sa far tesoro delle proprie esperienze, non è un Paese, è una scombiccherata realtà priva d’istituzioni, perché le istituzioni sono la condensazione consaputa d’interessi che si prescelgono perché siano protetti in quanto filtrati e selezionati, perché razionalmente giudicati da preferire alla luce, appunto, dell’esperienza. Da noi si va a vento, ma al vento prodotto dalla palude Stigia, dove ribolle un’acqua mista a fango.