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Quando il calcio viene salvato dai suoi tifosi

Opinionista: 

Ventilazione inapprezzabile, spalti gremiti ai limiti della capienza”: quando la voce, prima increspata e poi rauca, di Sandro Ciotti portava la partita nelle nostre case, noi ragazzi sognavamo di essere lì, sulle gradinate a tifare per la squadra del cuore. E invece, in quell’Italia che tifava, si innamorava, cantava e sognava, ci toccava restare a casa e ascoltare le radiocronache degli zii della domenica che giravano gli stadi del Belpaese per raccontarci, con eleganza, competenza e pulizia della lingua, le imprese degli eroi del pallone. Poi venne la tv: dalla telecronaca di un tempo di una partita, al calcio a tutte le ore di tutti i giorni, su tutte le reti di tutto il mondo, il villaggio globale del calcio. Ed è così che dagli spalti siamo passati a gremire i divani di casa e quando il covid ha chiuso gli stadi, siamo ancor più sprofondati in poltrona, secondo il copione del formidabile programma di tutti Fantozzi d’Italia: calze, mutande, vestaglione di flanella, tavolinetto di fronte al televisore, frittatona di cipolle, familiare di Peroni gelata, tifo indiavolato e rutto libero. Ora si è aggiunta la chat con i fratelli di fede, per esultare al gol e smadonnare contro l’arbitro in un ingorgo bestiale di tifosi da tastiera. Ripiegati striscioni e bandiere con simboli, nomi e colori delle squadre e delle città, questo popolo si è disperso nelle case, adattandosi allo “smart supporting” come è già stato definito il tifo da poltrona, sospendendo la guerra dei campanili, una specie di favoloso medioevo contemporaneo. In questo senso il tifo è stato considerato “antimoderno”, quasi un freno alla deriva affaristica di un calcio sempre più show e sempre meno sport, sempre più élite e sempre meno popolo. Molti scienziati avevano già detto che gli effetti della pandemia dureranno a lungo, anche quando sarà finita. Il distanziamento sociale, le emozioni confinate sul divano, il nemico invisibile fuori di casa hanno modificato la nostra vita e fatto calare le tenebre sullo stadio, dove l'assembramento è una sorta di pratica religiosa indispensabile per poter vivere davvero una partita. E’ in questo calcio "nudo" che sembra una fiction e che trasmette freddezza, è arrivato l’annuncio della Superlega. Ed è come se un fremito di protesta, un venticello leggere di contestazione, che si è fatto via via più forte con il passare delle ore, abbia attraversato il cuore dei tifosi che sembrava un popolo assopito, senza più incanto e stupore, davanti allo strapotere dei padroni del calcio. «Il calcio non è niente senza i tifosi». Le parole di Matt Busby, leggendario allenatore del Manchester United, sono state impugnate come coro di battaglia dei supporters inglesi contro la Superlega, risuonando come un inno alla longevità e la forza di un calcio pensato all’antica, in cui i valori sono speranza, competitività, coraggio e cuore, non i soldi. E sono arrivate le scuse dei big del Liverpool e dell’Arsenal ai loro tifosi. Perché il tifo è così, è anelito di liberazione attraverso il dinamismo della partita, ricerca di una felicità domenicale negata durante la settimana. Una felicità caduca, vera, sofferta, perché legata all’alea della classifica. Il "tifo" è un neologismo tipico del linguaggio sportivo italiano. Sembra nato dalla penna dei giornalisti sul finire degli anni '20 e se ne è anche voluta individuare una origine colta, derivata dal greco “typhos”: fumo, vapore. Ma è più probabile che la parola sia nata dal gergo degli spalti. Cominciò a circolare nel linguaggio parlato già prima della guerra, quando fu operata la deformazione del termine medico "tifico" in quello sportivo di "tifoso”. Il dizionario moderno di Alfredo Panzini lo registrò per la prima volta nella edizione del 1935 mentre nel 1939 l'Enciclopedia Italiana accoglieva il lemma "tifo" come traslato sportivo. Il tifo calcistico è una grande epopea popolare che ha scritto pagine di memorabile passione e generosità e non solo di violenza. A Valencia, sulle tribune dello stadio “Mastalla”, il posto 164 della fila 15 della tribuna centrale è occupato da una scultura in bronzo che ritrae un uomo con bastone mentre guarda la partita: era ed è quello di Vicente Navarro Aparicio, classe 1928 che aveva sempre visto la partita lì, poi aveva perso la vista e accanto a lui c’era il figlio che gliela raccontava, fino al 2016 quando è morto. In Repubblica Ceca, un tifoso cieco dei “Bohemians 1905” non si perde una partita casalinga del club di Praga. Con la sciarpa al collo e il fedele cane al suo fianco, l'uomo riesce a godersi tutte le emozioni che il calcio sa regalare. «Ecco il mio segreto - racconta -. E' molto semplice: non si vede bene che col cuore». Nel dicembre del 2018 ha fatto il giro del mondo il video di due tifosi dei Reds, ripresi sugli spalti dello stadio Anfield dopo il gol di Salah in Liverpool-Napoli. Al gol dell’egiziano la telecamera strinse su un ragazzo che sorridente applaudiva e festeggiava. Il tifoso era un non vedente che attende il racconto dell’azione e l’abbraccio del cugino per gustare a pieno insieme a lui l’emozione del momento. Ha scritto Gianni Brera che “il calcio è mistero senza fine bello” ed è infinitamente bello proprio perché è un mistero in cui Davide batte Golia e il cieco esulta al gol della sua squadra che vede con gli occhi del cuore.