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Quegli scandalosi colloqui che non scandalizzano più

Opinionista: 

Le imbarazzanti intercettazioni acquisite dall'indagine napoletana sul caso della Cpl Concordia e del sindaco di Ischia, pubblicate dal quotidiano Il Fatto, hanno dato luogo alla consueta polemica sull'uso che si fa di notizie ottenute attraverso carte penali rese di dominio pubblico. Si è quindi avviata la rituale discettazione circa la legittimità di simili pratiche, sulla rilevanza penale o meno delle notizie che si sono diffuse, sulla civiltà giuridica lesa, e via dicendo. È comprensibile. Quelle intercettazioni non hanno offerto un'immagine del tutto commendevole del premier in carica ed hanno confermato la sua spregiudicatezza nell'affrontare e nel parlare d'uomini e cose. Ma anche un po' della sua ingenuità nel confidarsi attraverso il mezzo telefonico e con persone che proprio esattamente mammole non sembrano essere. Ma tutto questo, in buona parte, era già noto e non mi pare la circostanza di maggior rilievo venuta fuori da quelle confabulazioni, in parte dalla cornetta, in parte da frasi di personaggi attovagliati intorno ad un tavolo d'un noto ristorante romano, non distante dal ministero dell'Economia. Quasi tutti mostrano gran sdegno per la diffusione di notizie in questo modo carpite. E certamente non sono propriamente nel torto. Epperò v'è da dire che nessuna di quelle informazioni attiene alla vita privata di qualcuno; ma tutte ruotano intorno a trame, più o meno oscure, che offrono un quadro per davvero, esso sì, sconcertante dell'apparato pubblico. Se le intercettazioni non son forse venute fuori a caso, c'è da dire che la loro rilevanza pubblica è al di là d'ogni discussione. Sarà pur grave la loro strumentalizzazione, ma il più grave è che di informazioni riservate – come quelle intercettazioni ambientali provano – s'alimenta l'apparato amministrativo e di governo per imporre o tentare di imporre in posti chiave propri uomini. E si tratta d'uso improprio di notizie acquisite per ragioni d'ufficio della più rilevante gravità. Se vere sono quelle informazioni pubblicate da Il Fatto, vertici dell'apparato di governo e militare esercitavano il ricatto per condizionare la scelta di altri vertici pubblici. E l'impudenza era tale, da far coinvolgere nell'attività estorsiva – sempre che sia vero – lo stesso Capo dello Stato dell'epoca, grazie a notizie che taluni avrebbero avuto sull'attività del figlio. Certo, si tratta di conversazioni: ma si tratta di conversazioni durante le quali persone vere ed assai influenti parlavano di queste cose come risapute e comunque ne parlavano, per esplicare scelte collegiali del Governo e del Capo dello Stato. Il quadro che ne vien fuori è desolante. Certo, nessuno ha mai immaginato che certi posti si raggiungano per concorso; per concorso no, ma da qui al ricatto organizzato e pianificato ne corre. E quel che è più grave, è la mentalità che quelle conversazioni rappresentano. Vere o false che siano le condotte alle quali quei commensali hanno alluso, si tratta pur sempre di alti esponenti della Repubblica, i quali le accreditavano per vere e, quel che è più rilevante, non ne inorridivano ma anzi le consideravano parte del gioco, da tener in conto per attrezzarsi con altre strategie, perché no di analoga natura. Ecco, questo a me pare terribile: che dinanzi a simili atteggiamenti – che dimostrano un senso della morale pubblica non propriamente coerente con le funzioni rimesse a quelle cariche – nulla si dica. Ma ci si preoccupi dell'uso improprio d'informazioni acquisite nel corso dell'indagine penale: le quali al più possono risvegliare l'opinione pubblica. Ma delle altre informazioni utili al condizionamento di poteri dello Stato e dunque a condizionare lo Stato, possibile nessuno avverta la radicale gravità? E se non l'avverte, cosa ne deve pensare la pubblica opinione?