Riapre la scuola dei nostri fallimenti
Andate. Andate e moltiplicate gli scontrini. Il nuovo decreto è chiarissimo: si riapre giusto il tempo di comprare i regali di Natale. Poi, celebrato l’avvento del signore bancomat, si torna tutti a casa ad aspettare e sperare che a salvarci arrivi non più il Bambinello ma san vaccino. Altro che oro, incenso e mirra: i Re Magi, diventati, Re Virologi, porteranno aghi, siringhe e mascherine. Vuoi mettere? Possiamo prenderla a ridere, ma nel grande gioco dell’Oca del virus dopo 9 mesi siamo tornati alla casella di partenza. Perché nulla di ciò che andava fatto è stato fatto. Lo dimostrano gli studenti, vittime tra le vittime della pandemia degli incompetenti e degli incapaci. Se oggi le scuole non riaprono è per le stesse ragioni per cui non potevano riaprire a maggio, giugno, settembre e ottobre. Non riaprono perché se si ammala un docente o uno studente è molto complicato ricostruire la catena dei contatti; le famiglie entrano in crisi, i tamponi si fanno con ritardo e tanti restano nella trappola della quarantena preventiva semplicemente perché non si riesce a fare alcunché. Come a maggio. Se questo poteva essere giustificabile in qualche modo all’inizio della pandemia, ora non lo è più. Per nessuna ragione. La situazione è sempre la stessa: è trascorsa la prima ondata, tra una distesa di cadaveri sta forse passando anche la seconda e andiamo incontro al rischio di una terza con gli stessi difetti, le stesse mancanze, gli stessi buchi neri di un sistema che continua a non funzionare o, nella migliore delle ipotesi, funziona a macchia di leopardo a seconda della regione o della provincia dove si risiede. In questi mesi tutti si sono riempiti la bocca auspicando un ritorno degli studenti delle superiori in classe ma, a iniziare dalla ministra Azzolina, nessuno ha mosso un solo dito per renderlo davvero possibile. La chiusura degli istituti è il simbolo del fallimento disorganizzato del Governo e quando riapriremo a gennaio lo faremo nelle stesse condizioni di oggi. Che sono quelle di febbraio e maggio. Nessuno ha messo mano al trasporto pubblico, al punto che l’unico modo di tornare a scuola in presenza alla fine sarà al 50% in didattica a distanza e con ingressi scaglionati, in modo da impattare il meno possibile sui mezzi pubblici. Studenti, famiglie e insegnanti aspettano ancora linee chiare che francamente è difficile immaginare che possano arrivare nel pieno delle vacanze natalizie. Potete scommetterci: tutto sarà lasciato - ancora una volta e tanto per cambiare - alla buona volontà e alla responsabilità di chi nelle scuole lavora e delle famiglie. Dovevamo incrementare il numero di bus e metropolitane, stipulare convenzioni con il trasporto privato che tra l’altro è drammaticamente fermo, organizzare la sorveglianza sanitaria, reperire spazi per ridurre il numero di alunni per classe, scaglionare sul serio gli orari d’ingresso e uscita: non è stato fatto nulla. Nulla di nulla. In compenso ci hanno raccontato che tutto il mondo ammirava «il modello italiano di contrasto dell’epidemia». Ecco, la scuola appare davvero il paradigma del fallimento di quel modello, tanto decantato quanto inesistente nella realtà. Una realtà fatta di numeri drammatici: pochissime Nazioni hanno un bilancio complessivo di morti per abitante peggiore del nostro. Eppure tornare in classe è necessario per evitare che alla crisi sanitaria e a quella economica se ne aggiunga una educativa e sociale. Con conseguenze devastanti per i nostri giovanissimi. Quando tutto sarà finito, l’Italia sarà stato il Paese europeo che avrà lasciato a casa gli studenti più a lungo di chiunque altro. Lo sanno tutti, ma tutti continuano nella gara a fare il meno possibile per garantire una riapertura che sia davvero duratura ed efficace. A scuola sì, ma di fallimento.