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Salvare le intercettazioni dai giacobini del fango

Opinionista: 

«Datemi sei righe scritte dal più onesto degli uomini e vi troverò una qualche cosa sufficiente per farlo impiccare». Ecco, è in queste poche parole pronunciate dal cardinale Richelieu che si trova l’essenza della coraggiosa battaglia del ministro della Giustizia, Carlo Nordio. Il tentativo di varare un provvedimento capace di mettere un filtro tra le intercettazioni usate per indagare e quelle usate per sputtanare è sacrosanto. E fa specie che la maggioranza sia divisa su questa questione. Non solo perché essa ha a che fare con una delle battaglie storiche del centrodestra, ma soprattutto perché investe la radice di uno Stato di diritto degno di tal nome. Nessuno né Nordio né il Governo né la premier Giorgia Meloni nega l’importanza delle intercettazioni. Ma un conto sono le leggi astratte e i buoni propositi, altro è la realtà concreta in cui quei principi sono calati. E la loro manipolazione. Il tema non è tanto se permettere gli ascolti per indagare su certi reati e vietarli per altri, ma gli abusi che finiscono solo per infangare cittadini che spesso non sono nemmeno sotto inchiesta. Ciò che Nordio si sta sforzando di dire è che serve una norma scritta in tal senso più efficace di quelle attuali. Anche se andrebbe aggiunto che tale norma dovrebbe far parte della più generale e radicale riforma della giustizia che l’Italia attende da troppo tempo. Le strumentalizzazioni fatte dopo la cattura del boss Matteo Messina Denaro sono inaccettabili: nessuna persona di buon senso potrebbe mai solo pensare di cancellare le intercettazioni come strumento d’indagine. Ma senza una loro regolamentazione più stringente resteremo una democrazia giudiziaria a sovranità limitata, sotto tutela di un ordine diventato contropotere dello Stato. Tutto questo non ha nulla a che fare con l’arresto di Messina Denaro e la sacrosanta lotta alla mafia. Lo dimostra il fatto che poco o nulla sappiamo del contenuto degli ascolti che hanno portato gli investigatori sulle tracce dell’ultimo (per ora) padrino di Cosa Nostra. Piuttosto, tutto il discorso del Guardasigilli è incentrato invece su un’altra esigenza: scardinare la devastante forza dello sputtanamento degli indagati. Una forza basata su norme spesso vaghe, indefinite, interpretabili al limite dell’arbitrio e che, attraverso l’oculata “selezione” delle intercettazioni, è capace di trasformare un atto in presunto crimine e un sospetto in un’imputazione giudiziaria senza l’adeguato supporto dei fatti. È il principio cardine del vangelo secondo Davigo: «Non esistono innocenti, esistono solo colpevoli non ancora scoperti». Una concezione giacobina della giustizia. La stessa che portò l’allora Guardasigilli grillino, Alfonso Bonafede, a dichiarare che con la legge precedente, quella che cercava inutilmente di limitare la trascrizione delle conversazioni irrilevanti negli atti dei processi, «sarebbe stato impedito ai cittadini di ascoltare le parole dei politici indagati o dei politici quando sono al telefono con persone indagate». Bonafede rendeva chiaro un punto cardine della sinistra giudiziaria: non è importante se l’intercettazione sia penalmente irrilevante o se la trascrizione sia legittima oppure no; ad essere rilevante è se possa essere o meno una notizia utile a infangare qualcuno. Meglio molto meglio se questo qualcuno è un avversario politico. Indipendentemente dal fatto che possa aver commesso un reato oppure no. È la traduzione normativa della trasformazione del sospetto nell’anticamera della verità, ovvero del diritto di trasfigurare le intercettazioni in un’arma di lotta politica. Semplicemente, Nordio si oppone a questa deriva barbara. Tutto qui. Un Governo che ha cuore lo Stato di diritto, ha il dovere di salvare le intercettazioni come strumento di ricerca della prova dalla furia giacobina di chi vuole la Repubblica dello sputtanamento. L’antico monito di Richelieu ancora riecheggia. Meditate gente, meditate...