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Se rileggessimo Sciascia come scrittore cristiano?

Opinionista: 

Trent’anni or sono moriva, a Palermo, Leonardo Sciascia, uno dei più grandi, se non il più grande intellettuale italiano del Novecento. Molto è stato scritto su di lui e, per uscire dallo stereotipo di molte rievocazioni, vogliamo qui far riferimento ad un aspetto particolare: quello della sua religiosità partendo dal tentativo di dar risposta ad una semplice e apparentemente banale domanda: Sciascia era ateo? Lasciamo che a rispondere a questa domanda sia lo stesso Sciascia e la sua risposta è sconcertante poiché essa rende la domanda del tutto vana in quanto, a suo giudizio, l’ateismo, cioè l’assoluta negazione di Dio, non esiste. Sciascia lo dice in tutta chiarezza intervenendo, il 10 febbraio del 1984, a Padova, con una sua relazione, ad un convegno su Religiosità ed ateismo. «Io, come Gide - afferma Sciascia - ho sempre pensato che non è facile essere totalmente e rigorosamente atei. È stato spiritosamente detto che in una sola giornata è possibile a un uomo vivere tutte le filosofie che sono state pensate nei secoli, passare dall’una all’altra visione della vita e, s’intende, della morte attraverso il succedersi delle condizioni e dei condizionamenti, delle percezioni e degli stati d’animo, della fatica, del riposo, dei desideri, degli appagamenti che una giornata contiene». Lo stesso concetto emerge chiaramente in una lettera inviata da Sciascia all’allora Cardinale di Palermo Pappalardo: «Lei certamente saprà come io so – afferma Sciascia – che si è atei come si è cristiani: imperfettamente sempre. Graham Green, che passa per uno scrittore cattolico, diceva di non sapere esattamente in che consistesse il suo essere cattolico. Principalmente, si capisce, nel credere in Dio, ma non sempre, diceva, io credo in Dio; e, anzi, ci credo sempre meno. Una volta, ricordo, all’angolo di una tale strada, alle 11 del mattino, ho creduto fermamente all’esistenza di Dio, ma ci sono momenti, ore e giorni in cui non credo affatto. E così, Eminenza, è degli atei: in un dato giorno, ad una data ora, all’angolo di una certa strada, anche il più granitico ateo della diocesi crederà in Dio con tale intensità da riscattare (secondo la religione che Lei rappresenta) le dichiarazioni di ateismo di tutta una vita». Ancor più esplicito è ciò che egli dice a Vittorio Messori che gli chiede se, nella cultura dei lumi, egli possa considerarsi un agnostico. Risponde Sciascia: «Una volta mi è capitato di scrivere che, se i miei amici credenti hanno dei dubbi sulla loro fede, io ho dei dubbi sulla mia incredulità. Non esistono atei, gente, cioè, che in ogni momento della sua vita sia davvero convinta dell’inesistenza di Dio: su questo problema la ragione non può dire nulla di definitivo. Ma credo che non esistano neppure credenti a tempo pieno, sempre e comunque. Credo che in tutti, anche nei santi, s’insinuino, talvolta, domande inquietanti». Chiarito che sarebbe del tutto erroneo catalogare Sciascia tra gli atei integralisti, si può passare ad una seconda domanda: Sciascia era cristiano? Claude Ambroise, che di Sciascia è stato uno dei critici più rigorosi ed attenti, lo nega perentoriamente. «Il testo di Luciano e le fedi, pubblicato lo stesso anno di Todo modo - scrive Ambroise – in prefazione alla ristampa dei Dialoghi dello scettico greco del secondo secolo, esprime chiaramente una posizione di non adesione al cristianesimo». Due interviste dello stesso Sciascia smentiscono clamorosamente la tesi del critico francese. La prima, rilasciata a Laura Lilli, la seconda con Andreina Vanni. Con Laura Lilli, Sciascia si lamenta di essere considerato «un illuminista, peggio, un voltairiano» e, all’intervistatrice che gli domanda la ragione di quel peggio, replica seccamente: «Non voglio Voltaire come padre. Degli illuministi mi ha sempre più interessato Diderot che Voltaire». E, quanto al rifiuto del cristianesimo è illuminante quel che dice ad Andreina Vanni: «Che cos’altro il potere ci prepara in tutto il mondo, se non la morte? Coi resti del cristianesimo, coi resti del socialismo, coi resti di tutto ciò che l’uomo ha pensato di giusto e di bello dobbiamo tentare di costruirci, dentro di noi, individualmente, perché poi ci possa servire collettivamente, un’ideologia della vita, una nuova utopia ». Un’utopia tutt’altro che irrealizzabile, dunque. In questo contesto ci sembra assumere valore definitivo quel che Sciascia dice a Alberto Cavallari: «Io sono poco siciliano, dato che la Sicilia è così refrattaria alla religione… La religione m’è sempre apparsa come un porto sicuro, un luogo di rifugio, una spiaggia tranquilla sulla quale amerei addormentarmi. La religione vissuta rappresenta per me l’aspirazione a trovare un centro, una beatitudine, proprio mentre significa tormento, inquietudine ricerca perpetua… Naturalmente non si può accettare una religione una volta per tutte, bisogna viverla giorno per giorno, in conflitto con se stessi e nel più grande dolore ». Quello di Sciascia è, dunque, un autentico sentir cristiano e ci vien da paragonarlo a quel sentir cristiano ch’egli riconosce al suo conterraneo Pirandello quando, in Alfabeto pirandelliano scrive: «È drammatico e traumatico l’impatto di chi autenticamente sente e intende il cristianesimo nella sua essenza evangelica (a parte la trascendenza e la dottrina che la regge) con una realtà che, di fatto, visceralmente lo stravolge, lo nega. È, a guardar bene, quel che accade a Pirandello, anima naturaliter cristiana, che si scontra con un mondo soltanto nominalmente, per apparenza e finzione ormai inveterate e non più come tali riconoscibili, cristiano». È nel rapporto con Manzoni che l’illuminismo di Sciascia diventa cristiano, realizzando quella che Melo Freni definisce «la razionalizzazione della religione e la religiosità della ragione». Aveva detto Sciascia a Marcelle Padovani: «Se mi chiedessero a quale corrente di scrittori appartengo e dovessi limitarmi a un solo nome, farei senza dubbio quello di Manzoni ». C’è anche una ricca aneddotica che indurrebbe a non dubitare del cristianesimo di Sciascia. Tra i tanti aneddoti ce n’è uno, in particolare, che ci sembra meritevole di essere ricordato. È il commovente racconto con cui Matteo Collura rievoca l’incontro di Sciascia con il vice questore di Agrigento Filippo Chiappisi avvenuto otto giorni prima della morte dello scrittore. A Chiappisi che gli aveva fatto visita nella sua casa di Palermo, Sciascia, parlando del suo rapporto con il cristianesimo, aveva detto: «Probabilmente diranno che mi sono convertito. Lei che ne pensa?». Il vice questore (era proprio a lui che Sciascia si era ispirato nel Cavaliere e la morte) gli aveva risposto: «Per l’idea che mi sono fatto di lei, della sua religiosità, la parola conversione non sarebbe adatta». Senza dire parola, Sciascia gli aveva stretto a lungo un braccio e nei suoi occhi Chiappisi aveva letto una forte commozione. Ci fermiamo a questo aneddoto che ci sembra significativo e tale da essere sintesi di tutti gli altri. È utile, ai fini del nostro discorso, rimarcare la natura del cristianesimo di Sciascia a proposito della quale ci si può richiamare a quella distinzione tra scrittori di parole e scrittori di contenuto operata da Pirandello. Così, tra i cristiani, si possono distinguere i cristiani di parole e quelli di contenuto, inserendo senz’altro Sciascia in questa seconda categoria e il cristianesimo di Sciascia assume venature gianseniste, rivestendo i connotati di una intransigenza che in un uomo tollerante come lui poteva apparire, forse, contraddittoria. E rigorista lo definì Valerio Volpini, scrittore cattolico e direttore dell’Osservatore Romano, con il quale Sciascia intrattenne per trentadue anni un’intensa amicizia alla quale fece da contrappunto un appassionato scambio epistolare. Un cristianesimo che si realizza nel concreto, dunque, quello di Sciascia. E tutta la sua opera letteraria, del resto, come già mi è capitato di sottolineare, si svolge seguendo tre filoni che lo portano – seguendo uno spartito che sembra proprio delineare un percorso cristiano – dalla parte degli umili, della verità e della giustizia. Sciascia visse così e fu così testimone, al di là di ogni stereotipo, di una profonda e vissuta religiosità, di un cristianesimo che non ebbe bisogno di aggettivi.