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Una lettera a Sua Santità

Opinionista: 

Santità, in questi giorni che hanno preceduto la Sua Visita Pastorale così attesa e gradita, ho dovuto, mio malgrado, fare una scelta: evitare di leggere quotidiani e riviste, per non sentirmi disturbato dalla moltitudine di commenti, articoli, appelli, preghiere auguranti e lettere importanti, che circolano sulla carta stampata e sul web, per la sua venuta. Mi dispiace e mi scuso, Santità, ma sono stanco, di quella spossatezza fisica e mentale che ti prende quando pensieri, parole, opere ed omissioni, ti inducono ad una colpevole rassegnazione, o ad un mea culpa, e ti portano a riflettere sulla vanità umana, sull'arroganza del potere, sui rimpianti ed orizzonti perduti di un intero popolo fiero e antico, come il nostro; è stato un grande sacrificio per me, perchè parafrasando le parole di un illustre argentino, Jorge Luis Borges: tanti altri si vantano delle pagine che hanno scritto e scrivono, io sono orgoglioso di quelle che ho letto e spero ancora di leggere. Ma quando parlare di Napoli diventa occasione di esercizio letterario, di epistolario esegetico, finalizzato alla vanità presenzialista del mittente, io non ci sto, perciò, caro Francesco, Ti scrivo, così mi distraggo un po'.... Napoli, città lazzara e nobile decaduta, con la sua inconsistenza geologica, con la sua radice tufacea e mediterranea, la sua bellezza violenta e violentata, la sua dicotomia fra zone "bene" e vicoli olezzanti di soffritto, ragù, zucchero, cannella ed esalazioni di chiaviche, può ispirare un unico sentimento bipolare, amore e odio. Ti racconto di Mariarca - contrazione popolana del nome Maria Madonna dell'Arco - una adolescente di 13 anni, che abitava in un quartiere ghetto, come Scampia ad esempio, e che un giorno scrisse in classe un tema, in cui confessava la sua più grande aspirazione, sposare un camorrista, così avrebbe risolto i problemi della sua numerosa e povera famiglia e sarebbe divenuta una donna "di rispetto". Circa un anno dopo partorì un bellissimo bambino, nel mio reparto, e oggi gestisce gli affari "di famiglia" mentre il suo uomo risiede a Poggioreale. Ti racconto, ma non basterebbero le colonne di questo giornale, di come si vive e si muore nelle corsie della sanità napoletana e campana, al cui Commissario straordinario, sicuramente oggi stringerai la mano. Di ospedali prima chiusi in fretta per dimostrare a Roma che si diventava virtuosi e pedissequi esecutori di ordini governativi, di pazienti gravi abbandonati su barelle, di un ospedale dal nome pretenzioso che inaugura in pompa magna la “propria opera incompiuta” e divora soldi pubblici in un pozzo senza fondo, e l'improvviso dietrofront elettorale che porta costoro a dichiarare il rifunzionamento di quelle stesse strutture che avevano dismesso, mentre nuovi direttori generali e burocrati incombono per grattare il fondo del barile. Ti racconto di quell'altra Napoli, quella che non vedrai, quella "a gruviera" , quella degli alberi, delle strade e dei marciapiedi fatiscenti, che rappresentano l'incubo giornaliero dei napoletani, perchè a volte ci scappa il morto, di un dissesto idrogeologico che fa il paio con quello amministrativo, nonostante il sindaco arancione de Magistris Ti parli d'altro nella sua lettera aperta. Ti racconto di Antonella, una madre a cui hanno ucciso il figlio, solo perchè tifoso del Napoli, cresciuto nel mito di Maradona e nell'ammirazione per il Pocho Lavezzi, che continua ad offrire all'Italia intera la propria lezione di dignità, amore e misericordia, di cui, caro Francesco, ami parlare senza sosta, tanto da dedicare all'argomento, un unica meravigliosa parola, un Giubileo Straordinario. Ti racconto della signora Pina e delle sue amiche, che da giorni pregano devote in una chiesetta di periferia, affinchè San Gennaro faccia la grazia, ma non quella mediatica e oleografica della liquefazione del sangue - per quello, secondo la signora Pina, c'è sempre tempo - ma che ti mantenga a lungo in vita, a discapito dei tuoi timori, e alla faccia di quelli che continuano a non capirti e a vederti come una minaccia ai loro vecchi privilegi. Ti racconto del mio bisnonno, che verso la fine del milleottocento s'imbarcò, salutando Santa Lucia luntana, per l'Argentina, ed amò talmente quel paese da imporne il nome alla mia nonna materna, e costretto a tornare in Italia, lasciò un figlio, Francesco, i cui discendenti prosperano e vivono a Santo Tome, nella provincia di Corrientes, dai quali, a volte, ricevo una scatola di maté. Non sarò in piazza ad osannarTi, non hai bisogno della mia presenza, mentre noi a Napoli abbiamo bisogno di Te. Sedierò dinanzi al televisore, a gustare un forte maté, sorseggiandolo dalla mia zucca a fiasco, attraverso una argentea bombilla, e mi illuderò che avrai letto anche questa mia lettera... con affetto e grazie Santità.