Federico Cafiero de Raho (nella foto) è stato dal 1979 Sostituto Procuratore della Repubblica a Milano e dal 1984 a Napoli. Dal 2006 all’aprile 2013 Procuratore della Repubblica aggiunto a Napoli. Il 13 marzo 2013, il plenum del Csm lo nomina procuratore della Repubblica di Reggio Calabria e l’8 novembre 2017, all’unanimità, Procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo. Lo è stato fino al febbraio 2022, quando è andato in quiescenza per raggiunti limiti di età. Dall’aprile scorso è stato designato dal ministro della Cultura presidente del Teatro Stabile di Napoli-Teatro nazionale. «Dopo le scuole elementari frequentate presso l’Istituto Pontano, venni iscritto all’Istituto Francesco Denza dei Padri Barnabiti, ove seguii l’intero ciclo di studi classici. Studiavo e facevo sport con passione e costanza. Studi classici e sport rafforzarono in me i valori della lealtà, correttezza e rispetto delle regole. L’Istituto aveva una squadra di calcio ed un gruppo sportivo per l’atletica leggera ed io ne feci parte. L’essere parte di una squadra affinò i sentimenti di coesione e solidarietà, che esaltano l’importanza del “noi” nel raggiungimento di ogni traguardo».

Perché, dopo la maturità classica, scelse la facoltà di giurisprudenza?

«I sentimenti di giustizia, rafforzati dalla pratica dello sport, mi hanno sostenuto nella scelta della facoltà di giurisprudenza nell’ideale di tutela dei diritti e difesa dei “più deboli”. Già dal primo anno di università pensai di partecipare al concorso per la magistratura. Mi dedicai interamente allo studio».

Anima e corpo allo studio, quindi?

«Studiavo tantissimo, quasi quattordici ore al giorno. Solo di domenica mi ritagliavo uno spazio di libertà. Ancor prima della laurea iniziai a prepararmi al concorso per uditore giudiziario frequentando il corso di Raffaele Di Fiore, giudice del tribunale dell’esecuzione, poi Pretore dirigente e, quindi, presidente del Tribunale di Napoli. Persona amabilissima e paterna, che ho considerato il mio mentore. Poco dopo aver superato il concorso, seguii le sue udienze da “uditore volontario”: avevo 25 anni e pensavo che la mia vita professionale sarebbe stata quella di giudice civile».

Terminato l’uditorato civile, passò a quello penale presso la Procura della Repubblica e ci fu la svolta. Ci racconti.

«Mi accorsi che il Procuratore della Repubblica aveva la capacità di incidere con immediatezza sul territorio, difendendo i diritti delle persone dalla pressione della camorra. Tale ruolo mi sembrò poter realizzare concretamente i miei ideali di giustizia. Gli ultimi sei mesi di tirocinio li trascorsi, quindi, alla Procura della Repubblica».

Avute le funzioni, quale fu la sua prima sede?

«Scelsi le funzioni di Sostituto Procuratore della Repubblica presso la Procura della Repubblica di Milano. Qualche settimana prima della scelta della sede venne assassinato dal gruppo terroristico Prima Linea il giovane e valoroso sostituto procuratore Emilio Alessandrini, in servizio alla Procura della Repubblica di Milano. La scelta di quella sede per me aveva un significato simbolico, voleva essere il segno evidente di una magistratura che non ha paura e, senza tentennamenti, anche nella sua componente più giovane, va a ricoprire gli uffici più esposti, per esprimere il massimo impegno nel contrasto al crimine, primo tra tutti quello organizzato, terroristico o mafioso. A Milano non solo il terrorismo imperversava, tanto che alcuni mesi dopo venne ucciso anche Guido Galli, giudice istruttore, ma ’ndrangheta e Cosa nostra erano fortemente radicate, controllando i locali notturni e la gestione della droga. Nel carcere di San Vittore si registravano omicidi generati dall’aperta lotta tra gruppi criminali contrapposti. Era il periodo in cui i detenuti di un padiglione passavano ad un altro con grande facilità. Quel che avveniva alla fine degli anni ’70 inizio anni ’80 del secolo passato è oggi inimmaginabile. Non accade più grazie alla disciplina, al rigore, al regime speciale di cui all’art. 41 bis dell’ordinamento penitenziario, all’organizzazione degli istituti di pena e, soprattutto, alla specializzazione del corpo di polizia penitenziaria. I cinque anni di Milano mi hanno formato, consentendomi un’esperienza vasta in ogni settore».

Quando rientrò a Napoli?

«Nel febbraio del 1984; sono rimasto alla Procura della Repubblica di Napoli 29 anni, prima da Sostituto poi da Procuratore aggiunto».

Di cosa si è occupato in questo lungo periodo?

«Subito di camorra, ma non essendoci una vera e propria specializzazione sui reati, in tante occasioni mi sono occupato di reati contro la pubblica amministrazione. Nel 1992 venne istituita la direzione distrettuale antimafia ed io fui uno dei 6 componenti. Mi fu assegnata l’area del casertano. Si ignorava che ci fosse un’organizzazione criminale della forza del clan dei Casalesi. L’unica sentenza che aveva riguardato i clan del casertano risaliva al 1986. Da quella data al 1992 c’era un vuoto assoluto. Con uno straordinario sforzo investigativo e alcuni collaboratori di giustizia come Carmine Schiavone, cugino di Francesco Schiavone “Sandokan”, riuscimmo a ricostruire l’organizzazione e gli interessi del clan dei Casalesi che, silenziosamente, si erano infiltrati nei grandi lavori post terremoto, nella costruzione della terza corsia dell’autostrada e della rete viaria attorno a Napoli dove, in alcuni segmenti territoriali, vennero sotterrati rifiuti tossici. Il clan aveva costituito un sistema economico e imprenditoriale basato sui consorzi del calcestruzzo, degli inerti e delle cave. Furono celebrati i processi Spartacus 1, Spartacus 2 e Spartacus 3, in cui oltre 300 camorristi del clan dei Casalesi furono condannati. Rappresentai la pubblica accusa nel processo Spartacus 1 che aveva 145 imputati e si protrasse per oltre 700 udienze; la mia requisitoria occupò ben 52 udienze. Tutti i vertici del clan furono condannati all’ergastolo e a pene severe gli uomini dell’ala “militare”, della struttura economico-imprenditoriale, della politica collusa. Mi occupai dell’omicidio del fratello del giudice Ferdinando Imposimato e dell’omicidio di don Peppe Diana con il risultato della condanna dei responsabili. Mi occupai dei clan dei Quartieri Spagnoli, di piazza Mercato, del Vomero, di San Giovanni, Barra, Ponticelli e di altri segmenti della città di Napoli; di quelli di Portici, Torre Annunziata, Castellammare di Stabia, Pomigliano, Ottaviano, Marigliano, Mariglianella, Caivano e di tanti altri Comuni della provincia, instaurando numerosi maxi-processi. Un enorme lavoro».

Nel 2013 diventò Capo della Procura della Repubblica di Reggio Calabria. Come trovò gli “uffici”?

«Reggio Calabria era un territorio in cui non appariva chiara la distinzione tra coloro che erano legati alla ’ndrangheta e quelli che ne erano distanti; vi era quasi una strategia della “confusione”. L’impegno mio e dei magistrati dell’ufficio fu pienamente condiviso e sostenuto dalla altissima professionalità di polizia, carabinieri e guardia di finanza, con i quali furono sviluppate le grandi indagini sul traffico di stupefacenti e sulle organizzazioni criminali che lo gestivano e fu affrontato, con straordinaria dedizione, il serio problema dei tanti latitanti. Alcuni lo erano da trent’anni. Nei quattro anni e mezzo di permanenza a Reggio Calabria la “Squadra Stato” formata da magistrati, carabinieri, polizia di Stato e guardia di finanza, legati da grande passione per l’affermazione della legalità, ha prodotto l’arresto di tutti i latitanti. Devo anche dire che a Reggio Calabria, proprio per la difficoltà del territorio, ho trovato persone splendide, di un profilo etico straordinario, persone che tuttora ricordo con affetto per l’impegno e la determinazione con cui hanno difeso i loro diritti e con essi la legalità contro la pressione arrogante, violenta, intimidatoria della ’ndrangheta. A tutte quelle famiglie sono ancora molto vicino e lo sarò sempre».

Un arresto che ricorda in modo particolare?

«Si cercava un criminale latitante da trent’anni. Fu individuato il covo in cima a un colle al quale si accedeva per mezzo di una scala di corda e pioli. Quando le forze dell’ordine fecero irruzione trovarono oltre al ricercato un altro criminale datosi alla “macchia” da vent’anni. Dormivano, perché ritenendosi al sicuro, si erano ubriacati. Alle pareti fu trovato un incredibile arsenale di armi di ogni tipo. In quel periodo vennero sviluppate anche indagini particolarmente significative che riguardavano il rapporto ’ndrangheta-impresa e la capacità che aveva la ’ndrangheta di creare veri e propri cartelli, in maniera simile a quelli costituiti dal clan dei Casalesi. Con l’altissimo impegno della Dia, delle altre forze di polizia e, soprattutto, dei magistrati della procura di Reggio Calabria, fu accertata la partecipazione, sia pure per un segmento temporale molto ristretto, della ’ndrangheta alla strategia stragista continentale di Cosa nostra, che inizialmente era stata esclusa in un periodo antecedente al mio insediamento».

La nomina a Procuratore Nazionale Antimafia e Antiterrorismo segna l’acme della sua carriera. Qual è il compito di questa struttura?

«Innanzitutto condividere le conoscenze investigative delle direzioni distrettuali. Con questa finalità è stata creata la banca dati che ha un centro presso la direzione nazionale e le articolazioni presso le direzioni distrettuali, che devono riversare in essa tutti i dati raccolti e gli atti compiuti. Giovanni Falcone, in audizione al Csm, disse che la direzione nazionale ha e deve avere un compito di servizio, di supporto per gli altri uffici. Da procuratore nazionale sono stato consapevole della necessità di migliorare la circolazione delle informazioni annullando, per quanto possibile, i segreti tra le direzioni territoriali, e in questa ottica ho dato impulso alle frequenti riunioni di coordinamento anche con 20 uffici di Procura, perché vi fosse piena condivisione delle conoscenze: nelle indagini collegate ciascun ufficio deve sapere quello che fa l’altro. A volte, ancora oggi ci sono delle riserve, dei momenti in cui si fa prevalere la segretezza e riservatezza sulla condivsione che è, invece, la vera forza del circuito giudiziario antimafia e antiterrorismo. La direzione nazionale, inoltre, è riferimento nella proiezione delle indagini all’estero, costituendo il raccordo tra le diverse autorità nel contrasto alle mafie; a questo scopo stringe rapporti, protocolli, memorandum d’intesa con uffici requirenti di pari grado nei vari paesi del mondo».

Di recente lei è stato nominato dal ministro della Cultura nel cda del Teatro di Napoli- Teatro nazionale e l’assemblea l’ha eletta presidente. Cosa rappresenta per lei questo incarico?

«Mia moglie ed io amiamo il teatro e siamo da anni fedeli abbonati del Teatro Stabile di Napoli. Il mio ruolo sembra lontano dalle attività che ho svolto ma in realtà tanto lontano non è. La cultura, infatti, è il primo ponte per coinvolgere le persone, e i giovani in particolare, nel progetto di cambiamento di quella parte della società che non è ancora riuscita a svolgere appieno il compito che la nostra Costituzione vorrebbe che i cittadini svolgessero per il massimo sviluppo sociale, economico e politico del nostro Paese. È un ruolo che ho accettato perché amo infinitamente la mia città; ho voluto continuare a dare un contributo a Napoli, nel sogno di portare il teatro nei quartieri più disagiati e coinvolgere i giovani più emarginati e dare loro cultura, sensibilità, amore per una società migliore, unita, pronta a condividere le sofferenze e offrire un’alternativa nel segno della vicinanza e solidarietà che tutti noi dobbiamo esprimere sempre nei confronti della collettività. Naturalmente sono impegnato anche in altre attività in linea con il mio percorso professionale. Alla mia città non farò mai mancare il contributo personale di passione civica».