Laureato in medicina con due specializzazioni, medicina interna e cardiologia, con particolare interesse per quella geriatrica, Alessandro Bresciani (nella foto) è dirigente medico alla prima medicina interna dell’Azienda ospedaliera Cardarelli di Napoli. Sua moglie, Claudia Calabrò, è pediatra e si interessa di allergologia pediatrica al Loreto Crispi. Hanno due figlie. La prima, Giorgia, frequenta il secondo anno di Giurisprudenza. La seconda, Federica, vuole ripercorrere la strada dei genitori e fare il medico. «Sono napoletano anche se ho un accento calabrese. In molti mi chiedono il perché e io rispondo che da piccolo ho avuto una tata di quella regione. Si chiama Grazia e ora dovrebbe vivere in Svizzera. A differenza di mio fratello e mia sorella ho “assimilato” molto la sua cadenza. Mia madre era casalinga e mio padre aveva un negozio di pittura, parati, vernici e belle arti. Ho impresso nella mia memoria di bambino e poi di adolescente il ricordo di quando il pomeriggio si mettevano entrambi a studiare perché volevano laurearsi in biologia. Per me era una cosa particolarmente insolita ma la loro caparbietà li premiò e conseguirono la laurea».

Perché avevano questo desiderio?

«Mio zio, fratello di papà, è un patologo generale e aveva un laboratorio di analisi vicino al cinema Alcione. Mio padre aveva da sempre il pallino di fare il direttore del laboratorio ma non ne ebbe il tempo. Si laureò ma poco dopo tempo, a solo 49 anni, venne a mancare. Mamma, invece fu assunta nel laboratorio di analisi dell’Ospedale Fatebenefratelli di via Manzoni».

Il negozio paterno trattava anche “belle arti”. Come mai?

«Per mio nonno, Antonio Bresciani, che è stato l’ultimo pittore della Scuola di Posillipo. Insieme a Francesco Galante ha decorato anche una parte del teatrino di Corte di Palazzo Reale. Era un uomo straordinario. Suonava meravigliosamente bene il pianoforte a orecchio ed era un profondo conoscitore dell’anatomia umana. Io e mio fratello, che è medico fisiatra, conserviamo diversi suoi disegni raffiguranti il corpo umano con dei particolari della muscolatura che veramente sono di un impressionante realismo. Ricordo che da bambino alle mie curiose domande su come riuscisse a realizzare quelle figure mi rispondeva: “all’Accademia di Belle arti uno degli esami più difficili che bisogna sostenere è quello di anatomia umana”».

Tornando a lei, come è nata la passione per la medicina?

«L’ho avuta da sempre e non ho mai immaginato nel mio futuro una professione diversa da quella del medico. Inizialmente volevo fare l’otorino perché da piccolo soffrivo di otiti con frequenti otorragie. Le curavo con iniezioni intramuscolo di pennicillina che erano molto dolorose. Mi iscrissi al Primo Policlinico a piazza Miraglia. Oggi università Vanvitelli».

Dopo la laurea si iscrisse alla specializzazione in otorinolaringoiatria?

«No, quella di medicina interna che considero, come tanti colleghi, un po’ la madre di tutte le specializzazioni perché consente di avere una visione generale. Avevo deciso di fare il medico per “antonomasia”».

Chi era il docente?

«Il professore Felice D’Onofrio. Siccome eravamo molti studenti, fui mandato al secondo Policlinico dove si erano aperti parte degli istituti dell’università di piazza Miraglia. Il mio “primo maestro” fu un professore di reumatologia, Sergio Migliaresi, un discepolo della famosa scuola del professore Giordano. In quel periodo mi sono interessato alla medicina interna con particolare riguardo alla reumatologia e alle patologie autoimmunitarie. Poi a un certo punto nacque l’occasione di scegliere un indirizzo per la medicina interna e scelsi quello della medicina d’ urgenza. Erano gli anni in cui uno specializzando, a mio avviso, era talmente innamorato della sua professione di medico che vedeva solo gli aspetti positivi. A me non bastavano più gli insegnamenti cattedratici che erano praticamente teorici. Volevo vedere nei fatti, nella operatività, quello che imparavo sui libri. Questo potevo ottenerlo solo facendo un’esperienza ospedaliera. La medicina d’urgenza fu l’occasione per realizzare questo mia esigenza e feci gli ultimi due anni di specializzazione all’ospedale San Paolo di Fuorigrotta».

Che cos’è la medicina d’urgenza?

«Si interessa di tutte le patologie acute come l’insufficienza cardiaca, gli infarti, gli ictus, le patologie conseguenti a situazioni come il diabete mellito e la cirrosi epatica. Insomma di tutte le situazioni per cui si deve intervenire in maniera urgente. Al San Paolo, però, non esisteva l’unità coronarica e la medicina d’urgenza svolgeva anche queste mansioni. Conobbi Fernando Schiraldi, che è stato uno dei più grandi urgentisti napoletani. Oggi è in pensione. Da lui ho imparato veramente molto».

Con quell’incontro nacque la sua passione per la cardiologia che la indusse qualche tempo dopo a riprendere in mano ancora una volta i libri per specializzarsi anche in questa branca.

«È proprio così. All’epoca era diffusa la trombolisi, che è il trattamento farmacologico che consente di dissolvere un trombo o un embolo presente in un’arteria o in una vena. Oggi esiste l’emodinamica per cui gli emodinamisti aprono l’arteria per liberarla dall’embolo».

Poi a 30 anni decise di sposarsi e le cose cambiarono.

«Mia moglie Claudia abitava nel parco Manzoni dove avevo casa anche io. Era specializzanda in pediatria e spesso ritornavamo insieme dal policlinico. Suo padre, Saverio Calabrò, primario emerito della divisione oculistica del Santobono, ci chiamò e ci disse che era preoccupato perché con la modesta retribuzione da specializzandi non avremmo potuto vivere dignitosamente. Ma noi ci volevamo assolutamente sposare».

Quindi che fece?

«Riuscii a essere assunto in una clinica privata di Acerra, Villa dei Fiori, che era convenzionata con l’Asl territorialmente competente e cominciai a lavorare con Andrea Guarini, ex primario negli Ospedali Riuniti, in medicina interna di cui era il responsabile. Successivamente, sempre in quella struttura, arrivò il figlio, Pasquale Guarini, che era un cardiologo proveniente dal Loreto Mare. Con lui mettemmo in piedi una piccola unità coronarica. Pasquale aveva una grossa esperienza perché veniva da un ospedale di battaglia e aveva deciso di lasciarlo perché si era vista preclusa la strada per il primariato».

Come è stata l’esperienza con Guarini?

«Decisamente formativa, perché Pasquale mi ha insegnato a fare molto anche dal punto di vista pratico. Ho cercato di “rubare il mestiere” sia a Schiraldi che a Guarini, prendendo da ciascuno gli insegnamenti migliori. Con il loro prezioso contributo mi sono costruito professionalmente».

Dopo qualche anno decise di lasciare Villa dei Fiori. Perché?

«Era una struttura privata, anche se convenzionata, e questo status comportava un margine di insicurezza sulla stabilità del posto di lavoro. Avevamo avuto la prima bambina e ritenni giusto seguire il consiglio di mio suocero di partecipare al concorso per un ospedale pubblico. Vinsi quello di medicina interna al Maresca di Torre del Greco».

È stata l’anticamera per il Cardarelli.

«Volevo avvicinarmi a casa e cominciavo a stare “stretto” in una struttura ospedaliera che non offriva molte opportunità anche dal punto di vista clinico. Decisi, quindi di fare domanda all’ospedale Cardarelli, dove l’unica disponibilità era in medicina d’urgenza con il primario Vittorio Russo. Ci sono rimasto cinque anni facendo anche attività di pronto soccorso».

In questo periodo mise a frutto la sua conoscenza in cardiologia che aveva maturato soprattutto con Guarini a Villa dei Fiori.

«In effetti ero uno specializzato in medicina interna che di fatto faceva anche il cardiologo. Volevo, però, il “pezzo di carta” che certificasse questa mia competenza. Decisi, perciò, di riprendere in mano i libri e mi iscrissi alla scuola di specializzazione in cardiologia. Lo feci rivivendo l’esperienza che aveva fatto mio padre, con la stessa caparbietà e motivazione. Furono quattro anni veramente duri ma alla fine centrai l’obiettivo».

Insomma, tra il corso di laurea e le due specializzazioni ha praticamente studiato per quindici anni.

«Esatto, e oggi che ho 52 anni mi domando come sia riuscito a farlo. Ho capito, però, una cosa molto importante, e cioè la grande differenza tra il “cattedratico” e l’ospedaliero. Il primo, ha generalmente una formazione quasi completamente teorica, il secondo invece quella pratica, che poi è quella che ti rende veramente un medico».

La sua formazione di cardiologo ha una caratteristica particolare. Ce la dice?

«Cominciai ad appassionarmi alla cardiologia rivolta alle persone che definisco “diversamente giovani”, cioè a quelli che comunemente vengono chiamati anziani. Mi sono quindi interessato della cardioangiologia geriatrica».

Un significativo impulso a questo suo interesse lo diede Arcangelo Iannuzzi. Ci racconti.

«È prassi al Cardarelli che dopo un certo numero di anni trascorsi in medicina d’urgenza si possa accedere alla medicina interna. Lo feci. Poi conobbi Arcangelo Iannuzzi, il primario della tredicesima medicina, che aveva un indirizzo geriatrico. Conosceva il mio interesse e mi chiese di andare a lavorare con lui. Accettai e sono stato con Lello circa 7 anni lavorando molto bene. Con lui, poi, ho avuto la possibilità di creare la struttura di lungodegenza che inizialmente si chiamava struttura di medicina per pazienti difficilmente dimmissibili».

Che cosa è?

«Ospita pazienti che per le loro caratteristiche patologiche sono difficili da mandare a casa, anche perché le strutture territoriali non riescono ad accoglierli. Sono, infatti, degenti con molteplici esigenze».

Per i suoi requisiti specifici i vertici dell’azienda ospedaliera la scelsero come responsabile facente funzioni di primario della neostruttura di lungodegenza, ma poi al momento della ufficializzazione le cose andarono diversamente. Che cosa accadde?

«Lo sono stato per un un anno e mezzo, poi fu bandito il concorso per il posto di primario. Con mio stupore, rammarico e grande delusione, nel bando furono previsti dei requisiti soggettivi che non mi consentirono di partecipare. È stata la prima e unica volta che fu messo questo tipo di sbarramento dalla precedente governance».

Si è dato una spiegazione a questo fatto insolito?

«Si sono privilegiate scelte che hanno ignorato completamente la meritocrazia. Avrei accettato una bocciatura alle prove concorsuali perché probabilmente avrei avuto colleghi più preparati di me, ma negarmi l’accesso al concorso è stato uno schiaffo alla mia dignità e alla mia professionalità. È una ferita che porto dentro che non riesce a cicatrizzare. Continuo a chiedermi il senso di avermi fatto fare il facente funzioni per un periodo decisamente lungo. Ma la risposta la conosco fin troppo bene e non l’accetto, perché non fa parte della mia cultura di uomo e di professionista. Naturalmente la mia dignità mi ha imposto di lasciare la lungodegenza e sono andato alla prima medicina interna con un primario, Marco Laccetti, con il quale ho un ottimo rapporto».

Di cosa si occupa?

«Mi interesso prevalentemente di cardiologia e con Marco abbiamo tutta una serie di programmi che riguardano i pazienti scompensati. Prima del blocco dovuto al Covid-19 stavamo creando un ambulatorio di cardioncologia. Riprenderemo a realizzare il progetto appena possibile».

Al di fuori del lavoro cosa fa?

«Sono appassionato di calcio, grande tifoso del Napoli, di tennis e di sci che pratico insieme a mia moglie e alle nostre due figlie. Quando la stagione e gli impegni lavorativi e di studio lo permettono, andiamo ad Ischia perché siamo una famiglia che ama il mare».