Avvocato penalista abilitato al patrocinio in Cassazione, Ettore Stravino (nella foto è a sinistra, con lui Renato Orefice) è stato più volte componente del Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Napoli. Ha lo studio in via dei Mille. «Sono nato a Maddaloni, ma ho trascorso gli anni della prima infanzia a Sant’Agnello, in penisola sorrentina. Dopo la prima media la mia famiglia si trasferì a Napoli dove ho continuato gli studi al liceo “Umberto”. Ebbi un avvio scolastico un po’ stentato ma alle superiori capii l’importanza fondamentale dello studio e lo affrontai con serietà».

Come mai scelse di iscriversi alla facoltà di giurisprudenza?

«Nonostante in casa si “parlasse” greco perché mio padre era professore di quell’antica lingua classica, non ho mai avuto esitazioni sul mio futuro universitario. Era una passione che avevo dentro, forse alimentata anche dal fatto che papà rimpiangeva di non avere fatto la stessa scelta quando era giovane e auspicava che uno di noi quattro figli diventasse avvocato penalista. Io sono il primo e assecondai il suo desiderio. Peraltro, egli tentò, quando noi figli eravamo piccoli, di realizzare la sua aspirazione. Prese in mano i libri di diritto mettendo un po’ da parte quelli di greco e si iscrisse a giurisprudenza. Ma l’insegnamento del greco classico richiedeva molto impegno e, superati alcuni esami anche importanti, dovette abbandonare».

Perché voleva un figlio proprio penalista?

«Da piccolo aveva vissuto la sua infanzia a Busseto, il paese natio di Giuseppe Verdi, in quanto figlio di un cancelliere in servizio al tribunale di Parma. Mi raccontava che nonno spesso in casa parlava dei processi di cui si occupava e, così, fu colpito dalla figura dell’avvocato che difendeva l’imputato. La sua fantasia lo vedeva come l’eroe che corre in aiuto del debole e si proiettò in quella dimensione. Poi al liceo si innamorò del greco e decise di laurearsi in lettere classiche ma conservò il ricordo dell’“aula del tribunale” che tanto lo aveva affascinato».

Come è stato il suo percorso universitario?

«Molto intenso. Frequentavo il nostro storico ateneo con estremo entusiasmo, mi sentivo a mio agio senza mai venire meno al rispetto, che a volte diventava timore reverenziale, nei confronti dei docenti. Più apprendevo e più desideravo mettere in pratica le conoscenze che acquisivo. Alla fine del secondo anno cominciai a frequentare Castel Capuano e iniziai a respirare quell’aria indescrivibile che si percepisce appena si entra nel cortile normanno. Superati gli esami di Diritto civile e Diritto commerciale ebbi la fortuna di essere accreditato all’avvocato Bernardo Giannuzzi Savelli, penalista di grido che purtroppo morì giovanissimo a soli cinquant’anni e cominciai, così, da studente, a frequentare il suo studio».

C’è un ricordo molto bello che lo lega alla sua memoria. Qual è?

«Quello del primo giorno, quando entrai con lui nell’aula della seconda sezione della Corte d’Assise ove, al banco di difesa, era seduta una persona anziana avvolta in un cappotto. Quando gli ero vicino mi guardò e disse: “Che cosa ci fai qui, sei giovanissimo, quando ti sei laureato?”. Gli risposi che ero ancora studente e lui mi sfiorò affettuosamente il viso con la mano. Dopo una settimana ci fu un fermento in tribunale. Il cortile di Castel Capuano brulicava degli avvocati più famosi tra cui Reale, Orefice, Botti, Siniscalchi, Pansini questi ultimi genitori di due giovani avvocati ma già campioni in fieri: Vincenzo Maria Siniscalchi e Gustavo Pansini. Appresi, così, che era morto quel vecchio avvocato che pochi giorni prima mi aveva dedicato quel gesto destinato a rimanere indelebile nel mio cuore: era Giovanni Porzio».

Quanto tempo è stato presso lo studio Giannuzzi Savelli?

«Fino alla laurea. Il praticantato lo feci allo studio dell’avvocato Patroni Griffi. All’epoca c’erano due scuole dove i laureati in giurisprudenza potevano degnamente prepararsi, una per sostenere il concorso in magistratura, l’altra per l’esame di abilitazione alla professione forense. La prima era tenuta dall’indimenticabile presidente Guido Capozzi; la seconda dal suo migliore allievo, il magistrato Umberto Carrescia. Seguii quest’ultima, superai il difficilissimo esame e diventai procuratore legale».

Dopo poco tempo la sua fede nella professione vacillò e pensò di fare il magistrato. Ma un incontro con quello che poì è stato il suo mentore la fece recedere. Ci racconti.

«Ero andato in tribunale per chiedere quali documenti occorressero per presentare la domanda per il concorso in magistratura. Mentre scendevo le scale per avviarmi all’uscita, incontrai l’avvocato Renato Orefice. Lo conoscevo in maniera superficiale ma mi era nota la sua fama. Mi chiamò e mi chiese come mai era un periodo che non mi vedeva più in giro per Castel Capuano. Evidentemente qualcuno gli aveva parlato di me e gli aveva raccontato della mia passione per la professione di penalista. Gli raccontai del momento di confusione che stavo attraversando. Poggiò paternamente la mano sulla mia spalla e mi disse: “oggi vieni da me allo studio”. Fu un momento magico che diede inizio a un rapporto che è durato una vita. Col tempo e con l’esperienza ho capito che quel senso di incertezza che provai è tipico della “crisi dell’adolescenza professionale” che attraversano tutti i i giovani che vogliono arrivare ma vedono il loro futuro buio e pieno di interrogativi».

Quando ci fu il suo debutto con l’avvocato Orefice?

«L’avvocato mi volle al suo fianco, alla seconda sezione della Corte d’Assise, nella difesa di un padre accusato di tentato omicidio. Era vedovo e voleva risposarsi ma la figlia lo osteggiava e lui cercò di ucciderla a rancolate. Fu assolto dall’imputazione principale e scarcerato. Gli fu inflitta una condanna per lesioni con il riconoscimento dell’attenuante della provocazione. Ottenemmo l’unico proscioglimento oggettivamente possibile e fu una vittoria. Per oltre tre anni, ogni mattina, passavo a prendere Orefice a via Andrea D’Isernia dove abitava e insieme andavamo in tribunale. Poi un giorno mi chiamò e mi disse che per lui ero pronto a “camminare” da solo e mi consigliò di aprire uno studio mio. Gli diedi ascolto, lo feci in via dei Fiorentini, ma non mi staccai mai affettivamente da lui».

Come fu l’inizio della professione da solo?

«A quell’epoca il penale si occupava prevalentemente di malavita e per noi giovani di piccola delinquenza. Esisteva ancora il delitto d’onore. Naturalmente le difese nei pochi processi importanti erano tutte tenute dai grandi maestri. Dopo poco si affacciarono i temi dell’ecologia, dell’abusivismo edilizio e della responsabilità medica e, così, iniziò un nuovo penale cui diedero corso giovani magistrati soprattutto i pretori. Questi nuovi filoni per noi giovani costituirono uno sbocco importante. Poi arrivarono i processi per terrorismo, criminalità organizzata, criminalità politica che videro frequentemente la mia presenza al banco della difesa».

Quale fu il suo primo processo?

«Per un omicidio e non lo dimenticherò mai. “Il Mattino”, che a quei tempi era illustrato, gli dedicò molte pagine. Difendevo un giovane impiegato di un famoso atelier accusato di avere ucciso la modella di abiti per signore anziane. La vittima aveva settant’anni ed era amante di quel giovane. L’opinione pubblica era divisa tra innocentisti e colpevolisti, fortemente condizionati da una censura morale. Nel corso del processo fui affiancato, oggi dico fortunatamente, da Gustavo Pansini che, all’epoca, già era il professore ed io ancora l’allievo. L’imputato fu assolto perché riuscimmo a provare che la morte era avvenuta per cause naturali. La sentenza fu confermata in appello e il Pm non ritenne che ci fossero i presupposti per ricorrere in Cassazione. Poi vennero i primi importanti processi per reati ecologici e Renato Orefice indirizzò al mio studio il presidente dell’Unione Industriale di Napoli perché assumessi la difesa di alcuni associati. Grande atto di affetto e di stima nelle mie capacità professionali».

Come era il rapporto tra voi giovani avvocati e i giudici?

«Improntato sempre al rispetto di regole inderogabili che avevano come scopo il raggiungimento di un obiettivo comune: l’accertamento della verità e l’affermazione di ragioni di giustizia alle quali noi giovani avvocati e giovani giudici avevamo prestato comune giuramento. Eravamo cresciuti nel rispetto del medesimo codice etico e ci sentivamo, all’epoca, legati da un unico credo, quasi sacerdoti di una stessa religione. Oggi, purtroppo, non è sempre così e quando noi anziani entriamo nel Palazzo di Giustizia rimaniamo un po’ smarriti perché non ritroviamo più quell’atmosfera di Castel Capuano che i nostri maestri amavano definire fucina di intelletti ed ancor prima che di cuori. Il suo cortile brulicava ogni giorno di giudici e avvocati e ivi si coglieva serenità sui volti di tutti. Ricordo prestigiosissimi avvocati e, con pari gratitudine, prestigiosissimi magistrati che, all’epoca, furono per noi giovani generosi maestri».

Per un decennio è stato componente del consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Napoli. Che ricordo ha di quell’esperienza?

«Molto bella e formativa. Renato Orefice mi invogliò a presentare la mia candidatura e l’appoggiò scrivendo a tutti i suoi tantissimi amici sul proprio biglietto da visita questa frase che rimane scolpita nel mio cuore e nella mia mente: “come se fossi io”. Fui eletto per la prima volta quando avevo 38 anni e sedevo nella sala del Consiglio al fianco del compianto Massimo Botti, avvocato di eccezionale valore e severo custode dell’etica professionale. Con me vi erano altri giovanissimi tra cui Franco Tortorano, Massimo Di Lauro, Maurizio De Tilla, Giuseppe Pistone e Vincenzo Tafuri. Eravamo i cuccioli del maestro Alfredo De Marsico, nostro Presidente e da tutti ritenuto il più grande avvocato dell’era moderna come dell’epoca greca lo fu Lisia e di quella romana Cicerone».

Sposò un magistrato, la compianta dottoressa Antonella Picciotti. Ci furono mai difficoltà nell’espletamento delle rispettive professioni?

«Donna bellissima e di gran cuore. Frequentava casa mia perché futura cognata di mia sorella: non potevo non ammirarla e non corteggiarla. All’inizio con assai scarso successo. Mi consenta di renderLa partecipe di un ricordo assai caro che rimane indelebile in me. Un giorno mentre ero in aula, all’ottava sezione del Tribunale, mi raggiunse Renato Orefice ed amorevolmente mi disse: “Ettore vieni, ti voglio far conoscere una affascinante uditrice che vedrei bene al tuo fianco”. Andammo, così, alla quarta sezione e ivi vi era Antonella che, con sorriso smagliante, si rivolse a Orefice e gli disse: “avvocato ma questo lo conosco, sono anni che lo vedo intorno a me” e, così, scoppiammo in goliardica risata. Dopo un anno eravamo sposati e Renato Orefice fu nostro testimone di nozze. Le notizie di lavoro che riguardavano uno di noi due le apprendevamo solo dai giornali. Lei amava molto il penale ed è stata Pretore, Pm e giudice di Tribunale. A un certo punto, ottenuto il traferimento da Potenza a Napoli, per non interferire neanche lontanamente con il mio lavoro, decise di farsi da parte e così scelse la funzione di giudice tutelare. Era una donna eccezionale di non comune intelligenza e terribilmente ironica. Non c’è giorno che non “dialogo” con lei».

Ha due figlie, entrambe avvocato ma nessuna penalista. Perché?

«Una, Simona, si occupa di diritto fallimentare e societario, l’altra, Stefania, di diritto di famiglia. Hanno deciso liberamente di occuparsi di diritto civile e io sono stato pienamente d’accordo. La vita del penalista è molto dura e comporta grandi sacrifici che non ritenevo compatibili con il ruolo di madre».

Il suo studio da tempo è in via dei Mille. Ha molti collaboratori?

«È stato ed è sempre aperto a tutti coloro che manifestavano serie intenzioni di inserimento nella professione forense. Si sono succeduti così, nel tempo, molti giovani, alcuni sono andati via dopo poco, altri sono rimasti e tutti oggi esercitano il patrocinio forense con grande dignità. Alcuni hanno ricoperto cariche ordinistiche e tra costoro vi è l’attuale presidente dell’Ordine degli Avvocati di Napoli Nord».

Qual è stato il processo che l’ha emozionato maggiormente?

«Non ce n’è uno in particolare, devo però dire che ancora oggi non sfuggo a forte emozione quando indosso la toga in difesa di un imputato condannato in primo grado all’ergastolo: sono momenti in cui si avverte tutto il peso della propria attività professionale».

Come giudica l’ergastolo ostativo di cui si parla tanto dopo la sentenza della Corte Costituzionale?

«Quando ci fu il referendum per l’abolozione dell’ergastolo il popolo massicciamente si pronunciò sul mantenimento di questa pena. Fu un errore perché l’ergastolo è una pena senza umanità, assai lontana dalla funzione rieducatrice del condannato. Ritengo che i tempi siano maturi per la rivisitazione del trattamento sanzionatorio dei condannati».