Gianpaolo Bergamo (nella foto) è laureato in Scienze economiche e bancarie. Dopo esperienze lavorative milanesi, rientrato a Napoli svolge la professione di chef. Pratica il tennis e lo sci a livello amatoriale e ha il brevetto di istruttore di vela conseguito a Caprera. «Nasco a Napoli in un contesto borghese. Dopo le scuole inferiori mi sono iscritto al liceo classico sulle orme di mio fratello Davide e mia sorella Anna, entrambi più grandi di me. L’alternativa era il liceo scientifico in quanto gli istituti tecnici, per la cultura di casa nostra, non erano presi in alcuna considerazione. Ho trascorso un’infanzia e un’adolescenza “dorata” perché godevo dell’agiatezza della mia famiglia. Sull’esempio di papà praticavo il canottaggio al circolo Canottieri Napoli. Lo alternavo al tennis, che ai miei tempi era considerato ancora uno sport d’elite. Altrettanto era lo sci, mia passione nella stagione invernale. Ero sufficientemente bravo nel mantenere il giusto equilibro tra profitto scolastico e attività ludica e sportiva. Dopo i due anni di ginnasio, in prima liceo cominciai a vivere uno stato di latente insoddisfazione perché mi sentivo imbrigliato dall’ambiente che mi circondava, che mi impediva di realizzare appieno il mio innato spirito libero. Sono sempre stato di larghe vedute, restio a qualsiasi forma di condizionamento e non mi sono mai preoccupato di che cosa gli altri potessero pensare di me. Insomma, avvertivo che quel provincialismo che sottendeva gran parte della cosiddetta “Napoli bene” e che spesso diventava ipocrisia, mi era diventato insopportabile. Acquisito il diploma di maturità classica, trovai un escamotage per uscire da quella situazione e allontanarmi dalla mia città pur amandola dal profondo del cuore».

Che cosa si inventò?

«Dissi a papà Renato e a mamma Adalgisa che avevo fatto delle approfondite ricerche sui corsi universitari diversi da quelli tradizionali, come medicina, ingegneria e giurisprudenza, e che ero rimasto particolarmente colpito da quello in Scienze economiche e bancarie. Sapevo che gli unici atenei dove esisteva questa facoltà erano Siena e Milano. L’ideale per me era Milano che consideravo la città dove la mia personalità si sarebbe potuta esprimere in tutte le sue declinazioni. Papà e mamma, con malcelata tristezza e anche delusione, rispettarono la mia decisione. Partii e ebbe inizio la mia lunga avventura milanese».

Ebbe difficoltà ad ambientarsi in un contesto così diverso da quello napoletano?

«Le conoscenze acquisite soprattutto sui social mi furono molto utili. Poi nel capoluogo lombardo vivevano i figli milanesi di parenti napoletani di papà con i quali instaurai una fitta rete di contatti. Furono nei miei riguardi dei perfetti “anfitrioni” in un contesto sociale spesso diametralmente opposto a quello in cui ero vissuto fino al mio trasferimento. Mi introdussero nel loro giro di amicizie e che mi servirono anche per farmi accettare nel ristretto ambiente universitario della Cattolica. In breve tempo la mia cerchia di amicizie si allargò a dismisura».

Quale fu il “passepartout” che le aprì tante porte?

«Fondamentalmente il mio carattere estroverso, la correttezza e il rispetto della vita e delle opinioni degli altri, e il mio grande senso di ospitalità. Era la Milano degli anni ’80 in cui ci si poteva divertire tanto. Avevo le spalle coperte sotto l’aspetto economico. Acquistai l’auto e presi in affitto un appartamento molto grande aperto a tutti gli amici».

Mentre studiava cominciò a lavorare. In quale settore?

«Per caso inventai i copricassa degli Swatch. Mi ero slacciato dal polso il mio orologio di plastica ed era caduto sul pavimento. Quando lo raccolsi mi accorsi che si era staccato un pezzo dalla cassa. Improvvisamente si accese nella mia mente una lampadina e mi ideai un guscio di metallo protettivo e decorativo che lasciasse libero il quadrante per vedere l’ora. Era il periodo d’oro di questi orologi che venivano acquistati dai collezionisti alle aste dedicate per cifre impressionanti. Ho assistito a persone che hanno pagato più di mezzo milione di lire per un orologio di plastica che costava all’origine 50mila lire».

Come erano questi copricasse?

«Con un mio amico dell’università, che era della zona di Valenza, in provincia di Alessandria, nota per la produzione e il commercio dei preziosi, facemmo creare degli stampi per realizzare delle vere e proprie cover. Cominciammo a commercializzarle tramite le aste italiane. Poi contattammo quelle tedesche e successivamente ci allargammo a macchia d’olio in Europa».

Tra i suoi clienti c’è anche lo stilista Rocco Barocco.

«Lo incontrai in aereo. Notò lo swatch che indossavo al polso e mi disse se potessi fargli degli esemplari esclusivi per lui. Gli realizzammo cinque copricasse, alcune in oro massiccio e altre tempestate di diamantini: l’orologio diventò un gioiello prezioso ed esclusivo».

Quanto è durata quest’attività?

«Quasi cinque anni e ci ha portato notevoli guadagni. Il brevetto era registrato ma iniziarono le imitazioni. Contemporaneamente gli studi universitari avevano subito un sensibile rallentamento e il boom di quegli orologi svizzeri di plastica era scemato. Capimmo che era giunto il momento di porre finire a quell’avventura».

Quando è ritornato a Napoli

«Sono rimasto a Milano per circa vent’anni. Tramite la Bocconi ho fatto una breve esperienza alla Banca Popolare di Novara, ma quel lavoro non mi era congeniale. Sono stato anche presso un importante studio di commercialista in via Montenapoleone. Il titolare era un mio caro amico. Curavo tutta la parte che riguardava la revisione contabile. Poi papà morì e dovetti rientrare a Napoli per curare l’amministrazione dei beni di famiglia. Fino ad allora se ne era occupata mamma ma aveva avuto un ictus. Mio fratello era medico ed esercitava a Sorrento, mia sorella era un funzionario del Tribunale di Napoli, l’unico con esperienza e disponibilità ero io. Comunque ho mantenuto la casa milanese che avevo acquistato in Porta Romana».

Oltre ad amministrare il patrimonio di famiglia di cosa si occupava?

«Mi ero portato dietro alcune consulenze. Economicamente vivevo bene sia per il compenso che avevo come amministratore sia per le rendite ereditarie, ma avevo molto tempo libero. I miei genitori quando ero a Milano si erano trasferiti definitivamente a vivere in una proprietà di campagna che avevano a Santa Maria la Bruna, tra Torre del Greco e Torre Annunziata. È una villa a due piani molto grande con una considerevole estensione di terreno in parte coltivata e in parte destinata a giardino, con annesso campo da tennis, sala di biliardo e terrazzo di copertura con calpestio.L’ho avuta io in eredità ed è diventata la mia residenza stabile. È anche il luogo dove ho cominciato a coltivare con continuità la passione per la cucina che avevo fin da bambino».

Ci racconti come è nata questa passione.

«Grazie alla sorella di papà, zia Anna, che era maestra nell’arte della cucina. Nella proprietà di campagna trascorrevamo parte delle vacanze estive e lei stava sempre con noi perché era vedova. Mi trattava come il figlio che avrebbe desiderato e che, purtroppo, non aveva avuto e mi viziava in tutti i modi. Un giorno, quando avevo solo otto anni, mi volle insegnare a fare la maionese. Mi piacque subito pasticciare e chiedevo alla zia di farmi fare sempre altre cose. Ricordo che una volta, sempre da bambino, feci cadere a terra un cesto pieno di uova. Corsi nella sala biliardo dove c’erano i miei genitori con alcuni amici, e ad alta voce dissi: “come si fa una frittata di uova?”. Zia Anna zittì sul nascere rimproveri e proteste, a partire da quelli di mamma; mi portò in cucina e mi fece realizzare in una capiente padella una grande frittata. La mangiarono tutti di gusto! Da allora la passione è cresciuta e l’ho coltivata per un periodo solo per gioco fino a quando, poi, per una serie di congiunture favorevoli è diventata la mia professione».

Possiamo dire che è uno chef autodidatta?

«Assolutamente sì. Sono estremamente curioso e quando me lo consentivano, già a Milano, andavo nelle cucine dei ristoranti per imparare dagli chef i loro segreti. Nella mia casa di circa 120 mq. organizzavo cene con amici che partecipavano sempre più numerosi. Alcuni mi invitavano nelle loro dimore di vacanza, sui laghi o in montagna, per preparare serate con cena. Per un certo periodo ho anche organizzato la festa di fine anno con musica e cenone sulle Dolomiti, sempre a casa di amici. A Napoli ho cominciato a studiare con costanza immergendomi sempre più nell’arte culinaria. Ho fatto progressi giorno dopo giorno e quando mi sono sentito sicuro ho accolto l’invito di mio cugino, Francesco Serlini, il quale mi chiese di organizzare a casa mia la festa per i suoi 25 anni di matrimonio: è stato il mio battesimo ufficiale come chef e organizzatore di eventi».

Ha aperto un ristorante?

«No, organizzo tutto nella mia villa. Aiutato da amici architetti, l’ho ristrutturata interamente rendendola idonea a ospitare cene ed eventi con oltre 150 persone distribuite nella parte interna, che è di 350 mq. e sul terrazzo di copertura, adeguatamente arredato, che misura 250 mq».

Qual è la sua clientela?

«I miei amici e i loro amici che, a loro volta, tramite il passaparola mi fanno conoscere in giro. Mi sono specializzato anche nel catering e nell’home restaurant».

Come si caratterizza la sua cucina?

«Sono partito con il gourmet, la cucina raffinata attenta al gusto e alla vista. Ma, poiché amo le sfide e mettermi sempre in gioco, ho cominciato a sperimentare contaminazioni che, secondo quanto dicono i miei “clienti”, mi hanno portato a livelli di alto gradimento. Un punto fermo e imprescindibile è che cucino prodotti di stagione».

Il segreto del suo successo?

«La grande passione innanzitutto e poi la presenza costante in ogni fase del “processo” per realizzare una cena o un evento, a partire dalla spesa giornaliera che faccio personalmente».

Ha un obiettivo da raggiungere?

«Creare una realtà strutturata. Ci sto pensando sempre più insistentemente anche se sono consapevole che fare impresa non è facile».

Per contattarla come si fa?

«Basta consultare il mio profilo Facebook “Cena con Gianpaolo”».