Dal 2005 Nicola Maurea è Direttore della Struttura Complessa di Cardiologia dell'Istituto Nazione dei Tumori IRCCS Fondazione Pascale di Napoli. Il reparto si occupa dell’ assistenza cardiologica  al paziente oncologico, prima, durante e anche molti anni dopo la fine delle terapie. Ha effettuato come  “invited speaker” centinaia di relazioni a congressi nazionali e internazionali. Ha presieduto 3 congressi internazionali, in parternship con il Dipartimento di Cardiologia dell’ MD Anderson Cancer Center di Houston  Texas Usa, che è l’ospedale oncologico più importante del mondo, e 6 congressi nazionali. È autore di circa 200, tra lavori scientifici  in extenso,  capitoli di libro, abstract a congressi nazionali ed internazionale. È docente da molti anni di cardiologia a tre corsi di laurea. È Presidente  Nazionale dell’AICO (Associazione Italiana di CardioOncologia).

«La mia vita professionale e personale è molto ricca. Ho quattro figli: Carlo di 28 anni che sta per specializzarsi, Fabrizio è al quarto anno di  medicina, entrambi hanno seguito le orme paterne, Margherita e Beatrice che sono due splendide gemelle di 3 anni. Mio padre, specializzato in medicina interna,  era primario medico  all’Ospedale Cardarelli;  e’ sicuramente stato forte il fatto di aver respirato “medicina”  fin dall’infanzia. Mio padre aveva lo studio in casa, mi  ricordo quando fin da piccolo  mia madre e l’infermiera cercavano di far stare buoni me e i miei fratelli per non disturbare mio padre  che lavorava dall’altro lato della casa. Per  cui, già durante gli studi classici al Liceo Umberto avevo deciso di fare il medico e cominciavo a frequentare i reparti ospedalieri. Dopo la laurea sono andato negli Stati Uniti d’America perché avevo vinto una borsa di studio del ministero della Pubblica Istruzione. In realtà ero già stato nell’estate  del quarto anno di medicina presso il St Michael’s Hospital di Toronto a frequentare il reparto di Cardiologia e durante il sesto anno ho frequentato la Divisione di Cardiologia degli NIH, National Institutes of Health, Washington D.C.».

Dove è stato subito dopo la laurea?

«Alla Duke University Medical Center Durham, uno tra i più importanti ospedali universitari statunitensi. Qualche anno dopo sono andato come Visiting Clinical Scientist  al New England Medical Center di  Boston. Per potere  lavorare negli Stati Uniti mi sono abilitato alla laurea americana con un doppio concorso, molto difficile, che si chiama ECMFG (Educational  Commission for Foreign Medical Graduates) che abilita la laurea italiana alla laurea negli Stati Uniti e in Canada. Poi sono stato come  Visiting Clinical Scientist presso il Dipartimento di Cardiologia del  Thorax Center di  Rotterdam, in Olanda».

Tornato in Italia, in quale ospedale ha iniziato a lavorare?

«Al Cardarelli. Mi ero specializzato in cardiologia e avevo vinto un concorso per cardiologo. Ho lavorato presso l'Unità Coronarica dell’Azienda Opedaliera di rilievo nazionale per 15 anni».

La morte di suo padre ha segnato la svolta nella sua vita professionale. Perché?

«Appena assunto papà si ammalò di tumore ai polmoni, lo feci operare dopo pochi giorni dalla diagnosi presso l’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano, ma due anni dopo  morì per complicanze cardiovascolari. Cercai di capire se c’era un nesso di causalità tra le cure oncologiche praticate e l’insorgere di patologie cardiache. Continuando nel mio lavoro mi resi conto che i pazienti venivano trattati e a volte guariti dal cancro ma spesso si ammalavano di patologie cardiovascolari. Decisi di approfondire la cosa perché non volevo limitarmi a svolgere la semplice attività di cardiologo».

È un  pioniere della cardioncologia. In concreto di che cosa si occupa questa nuova branca della medicina?

«Si occupa della gestione cardiologica dei pazienti oncologici, che a causa della neoplasia sono i pazienti più fragili ma principalmente   della prevenzione, diagnosi e cura delle cardiotossicita’da farmaci oncologici. Tutto questo richiede una preparazione particolare e un aggiornamento continuo.  Sono stato uno dei primi in Italia a sviluppare questa, che si può tranquillamente  definire. una nuova specialità. A Milano  se ne occupava anche l’Istituto Europeo di Oncologia  fondato da Umberto Veronesi. Ma mentre questo era supportato da grandi sponsor e industrie farmaceutiche che finanziavano la ricerca e i congressi, io ero appoggiato esclusivamente dalla Direzione  Scientifica  dell’ ospedale dove lavoravo, che credeva nelle mie intuizioni e nei miei risultati».

Si riferisce, in particolare, alla sua attività di primario al Pascale?

«Sì. Quando nel 2004, ad appena 40 anni, vinsi il concorso di primario cardiologo all'istituto Pascale, mi dedicai in modo particolare a dare sviluppo e concretezza alla sinergia tra oncologia e cardiologia. Mi recai subito a Houston dove in quegli anni nasceva il primo Dipartimento di Cardiologia Oncologica degli Stati Uniti. Instaurai un rapporto di collaborazione professionale che dura tuttora.  Come dicevo ho presieduto  tre congressi internazionali con la sponsorship del MD Anderson Cancer Center di Houston, di cui l’ultimo a Napoli a febbraio scorso,  che fortunatamente si è concluso prima del lockdown per la pandemia da Covid-19. I congressi hanno il doppio logo, quello del Pascale e quello del  Centro di Houston. Pochi giorni piu’ tardi e i tanti ospiti americani e europei sarebbero stati impossibilitati a partecipare al congresso».

Era anche il periodo in cui vennero fuori le terapie biologicheche, la “Target  Therapy”. Che cosa si intende con questo termine?

«Si e questa per me fu una coincidenza fortunata. Il concetto di  “terapia a bersaglio molecolare”,  vale a dire la Target Therapy  è quello di una terapia oncologica “mirata” su un bersaglio molecolare della cellula tumorale. In pratica, si tratta di una serie di molecole “costruite” per bloccare quelle proteine che a vario livello sono responsabili dei diversi aspetti della “malignità” cellulare. Fu utilizzato in clinica il Trastuzumab, un anticorpo monoclonale  che ha cambiato la storia naturale di un cancro particolarmente aggressivo, il carcinoma mammario, in cui la proteina HER2/neu era sovra-espressa. Ma rivelò  essere causa, come “effetto off target” di una  grave  patologia  cardiovascolare: lo scompenso cardiaco. Le altre patologie  in questo ambito sono anche  l'infarto miocardico, vasculopatie periferiche gravi,  ipertensione arteriosa sistemica e polmonare, aritmie potenzialmente letali e problemi di tromboembolismo arterioso e venoso. Scrissi in quegli anni un articolo: “Women survive breast cancer but fall victim to heart failure:the shadows and lights of targeted therapy. “Le donne sopravvivono al cancro al seno ma si ammalano di scompenso cardiaco. Luci e ombre delle terapie biologiche” . Questo lavoro scientifico, che mi diede grande notorieta’ ,allora, per cui fui avversato da molti  oncologici che mi presero per pazzo e visionario, ha insito nel titolo il significato di che cosa e’ la cardioncologia».

 E l’immunoterapia?

«È terapia ancora  più evoluta ma anch’essa con effetti collaterali cardiologici. Il più importante è la miocardite che e’  diversa da quella “normale” e ha un tasso di mortalità molto elevato, ne muore infatti circa il 50% dei pazienti. Recentemente si e’ visto che l’immunoterapia può provocare infarti miocardici, sindromi coronariche acute, ictus ischemico  con una probabilita’ 3 volte piu’ alta dei pazienti che non fanno questa terapia» .

Quindi, se abbiamo capito bene, da un lato si cura il cancro e dall’altro si “ammala” il sistema cardiovascolare?

«Grazie alle terapie biologiche, se si fa una diagnosi precoce, guarisce il 90%  delle donne che si ammala di cancro al seno , ma purtroppo il 20% si ammala di qualche problema cardiaco.  1 su  8 donne  si ammala nel corso della vita di un cancro al seno e la patologia cardiovascolare  può insorgere anche dopo anni dalla guarigione dal cancro.  Un'altra categoria di pazienti particolarmente  a rischio  sono i giovani  curati e guariti per  malattie ematologiche (ad esempio le leucemie e il linfoma) che anche dopo decenni  possono sviluppare   problemi cardiaci, scompensi o malattie coronariche o altro. Purtroppo questi pazienti non ricevono ancora una corretta informazione».

Ritornando al suo lavoro, in concreto che cosa fa?

«Quando sono arrivato al Pascale ho notato con grande rammarico che non si faceva il lavoro di squadra e che il cardiologo veniva considerato come un medico che faceva solo l'elettrocardiogramma.  Io e i miei collaboratori ci prendiamo cura dal punto di vista cardiologico del paziente neoplastico prima, durante e dopo le cure per il cancro. In  Italia vi sono circa 4 milioni di sopravviventi al cancro e molte centinaia di migliaia di pazienti contemporaneamente affetti da problematica  cardiologica e oncologica che sono le due piu importanti comorbidità. Ritengo che il Pascale possa essere considerato un eccellenza nella sanità nazionale anche dal punto di vista cardioncologico. Il paziente ha le migliori garanzie che una qualunque complicanza cardiovascolare da trattamenti oncologici possa essere prevenuta o, se si  verifica, venga intercettata e diagnosticata precocemente  in maniera da istituire terapie efficaci per arginare il problema; ma purtroppo  spesso mi arrivano pazienti da altri  ospedali in cui il problema si è purtroppo già verificato. La prerogativa  per una buona prevenzione e cura cardioncologica è, però, che il cardiologo  debba conoscere i meccanismi di azione dei farmaci oncologici e le loro potenziali cardiotossicita».

Quindi?

«Al Pascale  vengono condotti centinai di protocolli sperimentali di ricerca clinica con i farmaci più innovativi. Bisogna essere al passo con i progressi della ricerca sui farmaci che hanno  rivoluzionato la cura del  cancro perché quando  non riescono a guarirlo lo  trasformano in  una malattia cronica con cui il paziente convive.Infatti altra parte del mio lavoro  direi fondamentale, grazie al quale posso rapidamente renderni conto che un farmaco puo’produrre conseguenze  anche letali sul cuore è la ricerca preclinica».

Esiste al Pascale  un grosso stabulario in cui si allevano animali per la ricerca scientifica. È un fiore all’occhiello dell’Istituto ma è anche un significativo polmone per il suo laboratorio?

«Sono un clinico ma anche un ricercatore e dispongo  di un laboratorio di cardioncologia che mi è stato molto utile perché ho potuto toccare con mano l'effetto dei farmaci sulle cavie da laboratorio e sulle cellule cardiache. Praticamente  studio gli effetti cardiotossici dei farmaci sul cuore e le strategie terapeutiche per prevenirli: non c'è cura senza ricerca. Ho fatto comprare il primo in Italia e il secondo  in Europa, a  far comprare all’ Istituto nel 2009, un ecocardiografo  Color Doppler molto potente per studiare la funzionalità del cuore dei piccoli animali, e ho studiato e validato nuove metodiche ecocardiografiche per identificare precocemente la cardiotossicità; concettualmente è molto più rapido e intuitivo capire se un farmaco è cardiotossico nell’animale da esperimento, cosi ho pubblicato molti lavori scientifici  proprio sui farmaci cosidetti “cardioprotettori” cioe’ i farmaci che proteggono il cuore dagli effetti tossici dei farmaci oncologici».

È l’artefice del primo progetto di Rete Cardioncologica. Ci spieghi che cosa è.

«Si attacca alla rete oncologica della Regione Campania, la cui cabina di regia è al  Pascale,  e mette in collegamento i 10 ospedali più importanti della Regione Campania, e di conseguenza  anche quelli più piccoli che gravitano intorno a questi 10, per garantire un rapido accesso alle cure e un trattamento evidence-based,  secondo le linee guida, a tutti i pazienti in terapia antitumorale che devono parallelamente essere seguiti a livello cardiaco per evitare complicanze. Le stesse, se non trattate, sono ancora oggi responsabili di circa un terzo  dei decessi dei pazienti nei malati di tumore, dato questo molto  superiore a quello della popolazione generale; e’ dimostrato infatti che dei pazienti oncologici, il 50% muore di cancro ma il 33% si arrende purtroppo  alle  patologie cardiovascolari, morti che potrebbero invece essere evitate da un approccio al paziente e da un organizzazione di cura cardioncologica.. In questo modo, si compie un ulteriore passo avanti verso l’abbattimento dei tempi per la presa in carico del paziente ed essendo in campo cardiologico il fattore tempo una variabile decisiva, il risultato si tradurrà in un maggior numero di vite salvate».

C’è sufficiente attenzione e informazione sul rischio cardiovascolare nel paziente oncologico e sulla sua prevenzione?

«Assolutamente no. Le relazioni ai congressi e corsi di aggiornamento o non bastano, restano confinate  alla comunità scientifica. Occorre un’informazione mediatica più attenta e capillare. Inoltre non è più procrastinabile la presa di coscienza dell’intera problematica da parte della politica che deve intervenire in maniera strutturale sull’ organizzazione degli ospedali  per  consentire innanzitutto  di salvare vite umane ma anche di ridurre i costi per la sanità pubblica. Vanno istituiti reparti di Cardioncologia nei grandi ospedali, perché se il paziente ha un problema cardiologico importante non può essere assitito in oncologia da personale medico e infermieristico avvezzo ad altra specialità e in tutti gli ospedali strettamente oncologi, alcuni, centri di riferimento nazionale e internazionale, come  il Pascale  va riorganizzata l’assistenza anche in termini di urgenze cardioncologiche».

Avrà uno spazio da riservare alla sua vita privata. Come lo riempie?

«I miei figli maschi sono ormai grandi, hanno le loro vite. Cresco e gioco con le mie due bambine. Mi piace il mare e in inverno, appena posso, cerco di andare a sciare: Covid-19 permettendo a Natale  comincerò a insegnare a sciare a Margherita e Beatrice».