
Marcello Casale, il medico “freudiano”
di Mimmo Sica
Lun 29 Mag 2023 15:37
Marcello Casale (nella foto) è laureato in medicina e chirurgia e specializzato in psichiatria. Ha conoscenza della psicoanalisi, approfondita attraversi studi specifici, e segue la teoria freudiana applicandola alla sua pratica di specialista. È sposato con Rita, anche lei medico psichiatra, con la quale ha una figlia Lavinia. È il responsabile f.f. del Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura dell’Ospedale di Aversa. «Nasco a Napoli, al Ponte di Tappia, e ho tre fratelli, di cui uno è il mio gemello, e una sorella. Papà era odontoiatra non per sua scelta, avrebbe voluto fare il giornalista, ma perché aveva assecondato la volontà di mio nonno che lo voleva dentista come lui, mentre mamma, che avrebbe voluto fare medicina, ripiegò sull’insegnamento perché al tempo una donna medico si pensava non avesse futuro. Fin da piccolo sono stato molto curioso e una delle prime cose che chiesi a mio padre fu l’origine del “toponimo” Ponte di Tappia. Mi spiegò che un giudice spagnolo della Vicaria, Egidio Tappia, nel 1566 acquistò uno dei primi palazzi costruiti su via Toledo. Comprò, poi, un secondo palazzo limitrofo ma diviso dal primo da una piccola traversa e, per dare continuità abitativa ai suoi appartamenti, fece congiungere i due fabbricati con un ponte su cui edificò altri appartamenti e la strada che veniva scavalcata da esso fu chiamata “Ponte di Tappia”. Feci un figurone quando lo raccontai a scuola. Un’altra mia grande passione è quella per il nuoto. All’età di sei, sette anni, iniziai a frequentare la piscina del circolo Canottieri Napoli dove mamma portava me e mio fratello gemello Manrico. Appena l’età me lo ha consentito sono tornato al Molosiglio, a quei luoghi con i colori, i suoni e gli odori dell’infanzia, diventando socio del sodalizio giallorosso, e continuo a praticare questa disciplina sportiva. Non ho conseguito titoli o trofei ma comunque ho un primato, quello di avere fatto parte del gruppo pilota che ha frequentato il liceo sperimentale».
Che cosa è?
«Il Liceo Unitario Sperimentale fu un esperimento didattico degli anni ’70, che ebbe una vasta eco non solo per la sua valenza pedagogica, ma anche per essere diventato un simbolo culturale. C’era un biennio comune con materie più o meno condivise e un triennio con indirizzo a scelta: matematico scientifico, linguistico e economico aziendale. Ci fu l’idea di aggregare anche le materie umanistiche ma non fu possibile intaccare la roccaforte costituita dal liceo classico. Ebbi docenti eccezionali e stimolanti. Furono anni intensi, trascorsi nella cornice dell’ex convento che attualmente ospita l’Hotel San Francesco al Monte, al corso Vittorio Emanuele».
Dopo la licenza liceale scelse medicina. Perché?
«Veramente non pensavo minimamente di fare il medico tanto è vero che insieme a Manrico mi iscrissi alla facoltà di ingegneria al Politecnico di Fuorigrotta. Fu la logica conseguenza delle materie studiate allo sperimentale. Mi ronzava intorno, però, un cugino, Corrado, che ho definito il mio “diavoletto”, il quale non perdeva l’occasione per invitarmi a fare medicina come lui. Oggi è un neurochirurgo affermato. Deluso dall’esperienza al Politecnico, complice il cugino, dopo soli due mesi mi traferii a medicina. Con gli anni ho capito che il vero motivo del mio disinteresse dipendeva dal fatto che non sono per niente portato per le discipline pratiche e applicate. Per fare un esempio sono un appassionato di orologi ma perché misurano il tempo, ed è il concetto di tempo il mio vero interesse, non il meccanismo che lo misura».
Quindi si iscrisse a medicina. In fondo diede ascolto a suo cugino Corrado.
«Non credo. La domanda me la sono posta più volte e l’unica risposta possibile l’ho trovata in un’esperienza fatta da ragazzino e reiterata nel tempo». Quale? «Papà nel suo studio aveva una libreria ricca di libri. Romanzi, saggi, volumi di storia, testi scientifici e testi di medicina che spaziavano dall’anatomia alla psichiatria e alla psicoanalisi. Avevo libero accesso a quei libri ed ero attratto in modo particolare proprio da quelli di medicina che solleticavano la mia innata curiosità. Volevo capire il funzionamento del corpo umano e della mente. Ripeto era curiosità, almeno credevo allora, e non interesse. Evidentemente non era proprio così e la delusione provata a ingegneria fece il resto. Mi iscrissi al primo Policlinico, a piazza Miraglia, sicuramente controcorrente per quei tempi, ma la mia pigrizia mi impediva di fare un “viaggio” fino al secondo Policlinico. Non me ne sono mai pentito!».
Dopo gli insegnamenti fondamentali quale orientamento prese?
«Nonostante studiassi molto, con interesse e passione, “vagavo” tra le cliniche perché non avevo le idee chiare su quale specialità scegliere. Fu il caso a decidere per me. Dovevo studiare per sostenere l’esame di psichiatria. Lo superai in preappello consapevole che non me lo avrebbero convalidato. Per non vanificare lo sforzo fatto e il buon risultato conseguito decisi di iscrivermi all’internato con l’intenzione di abbandonarlo dopo la convalida dell’esame. Non è andata così perché da quel momento non ho più lasciato psichiatria».
Perché?
«Scoprii di avere una naturale predisposizione a dialogare con i pazienti affetti da disturbi psichiatrici e ricordai quando da bambino ebbi l’occasione di conoscere uno di loro. Avevo sette anni e accompagnai mio padre all’ospedale San Gennaro, dove c’era uno dei primi reparti di psichiatria. Aveva un appuntamento di lavoro con un collega. Mentre lui parlava mi avviai per il corridoio ed entrai nel reparto dei “malati di mente” e mi fermai a guardare incuriosito una donna che, immobile davanti ad una finestra, era immersa in soliloqui. Non provai alcun timore. Fui portato via di corsa da una suora spaventatissima. Oggi definirei quella donna una schizofrenica. Forse quell’episodio fu il seme che poi negli anni è germogliato».
Di cosa si occupa la psichiatria?
«È una branca della medicina che si occupa dello studio, della prevenzione, della diagnosi, cura e riabilitazione delle patologie psichiatriche in pazienti adulti; a differenza della neuropsichiatria infantile che si occupa invece del trattamento delle patologie dell’infanzia e dell’adolescenza. Le patologie più note sono il disturbo bipolare, la schizofrenia, la depressione, le personalità patologiche, i disturbi “nevrotici”… in generale tutto ciò che riguarda le disfunzioni mentali».
Ritornando agli studi universitari, ha avuto un mentore?
«Il professore Paolo Gritti, responsabile del servizio di igiene mentale del Primo Policlinico, mi affascinò. Grazie a lui durante il quinto e sesto anno del corso di laurea, e durante tutto il corso di specializzazione, ho fatto consulenze psichiatriche per ricoverati affetti da altre patologie mediche. Mi piaceva molto quel tipo di lavoro perché era un’attività di squadra che mi consentiva di contribuire alla realizzazione del mio massimo principio professionale che è l’affermazione della pari dignità del malato psichiatrico rispetto a tutti gli altri pazienti. Tornando con la memoria a quegli anni mi ritengo un “fortunato”. Ho avuto la possibilità di formarmi a 360 gradi, tra reparto, ambulatorio e consulenze, grazie alla disponibilità di tutti i docenti. La psicoanalisi invece è stato un amore tutto mio».
Dopo la laurea e l’iscrizione alla scuola di specializzazione, sbocciò l’amore per la psicoanalisi. In che cosa si differenziano?
«In estrema sintesi la prima differenza consiste nello stabilire a chi o a che cosa è diretta la cura in caso di patologie della mente. Per la psichiatria è prima alla malattia mentre per la psicoanalisi alla persona, la sua realtà interna e il suo porsi in relazione. La seconda differenza è nelle mete che si prefiggono, la prima di curare il disturbo al fine di riportare la persona il più possibile ad una condizione di equilibrio mentale e comportamentale accompagnandolo e sostenendolo nel suo decorso; la seconda, invece, di aiutare la persona a superare e sanare difficoltà e carenze evolutive cosicché sia in grado di essere padrona di sé stessa e della sua soggettività. Leggendo i libri di papà verso i quattordici anni sono stato attratto dalla psicoanalisi e da quello che è considerato il suo fondatore, Sigmund Freud. L’ho approfondita durante il corso di laurea, la specializzazione e la studio tutt’ora, scoprendo anche tutti i successivi autori. Difficile tradurre in parole l’esperienza della prima e della seconda analisi freudiana che ho portato a termine… Mi definisco uno psichiatra “psicodinamico” perché ho voluto coniugare la psichiatria con il punto di vista psicoanalitico e questa sintesi ha ampliato e completato la mia formazione professionale».
Psichiatria, psicoanalisi. E la psicoterapia che cos’è?
«Si tratta della cura attraverso la parola lasciando da parte i farmaci. Non è strettamente appannaggio della medicina. Durante la specializzazione ho avuto la fortuna di completare anche un corso in psicoterapia della famiglia e della coppia ad orientamento sistemico-relazionale acquisendo un titolo integrativo alla specializzazione. Esiste un albo nazionale degli psicoterapeuti che possono diventare tali solo dopo avere frequentato un corso di formazione che si basa su precisi criteri contenuti in una legge a hoc».
Dopo la specializzazione qual è stato il suo percorso?
«Ho continuato a frequentare il Primo Policlinico e poi ho vinto il concorso come psichiatra presso il Dipartimento di Salute Mentale di Salerno. Assegnato all’unità operativa complessa di Polla, vi ho lavorato per circa due lustri. Fu una mia precisa scelta perché volevo lavorare in una piccola realtà per potere esprimermi al meglio sia a livello ambulatoriale che a quello di reparto. Dopo questa esperienza mi sono trasferito al Dipartimento di Salute Mentale di Caserta. La prima destinazione è stata Santa Maria Capua Vetere, quindi il reparto di psichiatria dell’ospedale di Aversa, dove esercito tutt’oggi. Ricordo il primo caso della mia carriera: specializzando da pochi giorni mi fu assegnato un paziente affetto da disturbo bipolare un una fase maniacale grave, che mi si manifestò in tutta la sua tipica sintomatologia: senso di grandiosità, diminuito bisogno di dormire, logorrea, pensiero accelerato o fuga delle idee, distraibilità, disinibizione sessuale, iperattività afinalistica. Lo seguo ancora oggi, lui come altri. E questa è una soddisfazione autentica».
Ora che cosa fa?
«Sono il responsabile facente funzione del servizio psichiatrico di diagnosi e cura».