Laureato in medicina e chirurgia, specializzato in pediatria, Pasquale Pannone (nella foto) è stato per venticinque anni dirigente pediatra dell’Unità Operativa Materna Infantile (Uomi), a San Giovanni a Teduccio, del Distretto 32 - Asl 1 Napoli Centro. Da cinque anni è il dirigente responsabile della pediatria di Barra, sempre dello stesso Distretto. Ha praticato a livello amatoriale il calcio, il tennis e lo sci. È musicista specializzato in piano jazz e ha l’hobby di costruire i presepi. «Sono napoletano e figlio d’arte perché mio padre, Romolo, era medico. La mia è stata una famiglia allargata e, insieme a mia sorella maggiore Nadia, ho vissuto anni meravigliosi grazie alla presenza dei nonni materni, delle sorelle e del fratello di mamma, Rosa, e degli zii acquisiti. Quando racconto agli amici episodi di questa infanzia speciale non tutti riescono a comprendere quanto sia stata importante per la mia formazione. In quel periodo sono sbocciate le grandi passioni sportive che ho continuato a coltivare fino a quando, in età adulta, non mi sono rotto il legamento crociato del ginocchio. Verso i dieci anni, poi, mi innamorai letteralmente per il pianoforte. Nell’adolescenza, seguendo l’hobby del fratello di mamma, cominciai a costruire presepi. Ingrandisco ogni anno l’ultimo che ho fatto che, attualmente, occupa la metà di una stanza della mia abitazione».

Sport e musica. Riusciva a conciliare questi interessi con gli studi?

«Sì, perché la forte passione mi faceva affrontare qualsiasi sacrificio. Fino alla terza media ho frequentato l’Istituto Nazareth, a via Kagoshima, al Vomero. Il ginnasio e il liceo classico l’ha fatto al “Vico”. Sono stato promosso ogni anno senza affanni. Ho un ricordo molto bello, in particolare, per lo sci perché è legato a doppio filo con papà, che come mamma, non c’è più. Avevo quattro o cinque anni e ogni fine settimana, nel periodo invernale, andavamo a Bocca della Selva, una località montana nel Beneventano, all’epoca poco nota. Papà, pur non sapendo sciare, apprezzava molto questo sport e voleva che Nadia e io imparassimo a praticarlo. Era anche l’occasione per incontrare suo fratello Andrea che abitava a Benevento e, per mamma, quella di stare insieme a sua sorella Eva che lo aveva sposato. Non c’erano impianti di risalita e lui per ore, instancabilmente, ci trainava a mo’ di skilift sui pendii innevati dai quali scendevamo per qualche centinaio di metri a “spazzaneve”. M’innamorai della “dama bianca”, e da adolescente, la domenica a prima mattina con altri appassionati prendevo il pullman turistico a piazza Vanvitelli e, dopo un viaggio di quattro ore, arrivavamo a Roccaraso per ripartire poi nel tardo pomeriggio. A un certo punto decisi di trascorrere le vacanze estive alla Scuola Sci Pirovano Stelvio, a 3mila metri di altitudine. Lì imparai sul serio e mi perfezionai. Feci anche agonismo con lo Sci Club Vomero. La passione per questo sport l’ho traferita ai miei due figli Flaminia, studentessa alla facoltà di medicina, e Romolo ancora liceale».

La passione per il pianoforte, invece, com’è nata?

«Restavo incantato a sentire suonare zio Andrea quando lo andavamo a trovare. È un virtuoso del pianoforte ed è un autodidatta nonostante zia Eva sia diplomata al Conservatorio di Napoli proprio in questo meraviglioso strumento musicale “a corde percosse”. Non avevo ancora compiuto dieci anni quando, nel corso di un fine settimana trascorso a casa degli zii insieme a mamma, imparai a suonare con una sola mano “Rose rosse”. Papà ne rimase sbalordito e quando il sabato successivo tornai da scuola, trovai nel salone di casa un pianoforte a mezza coda e un maestro. Mi rifiutai di prendere lezioni ma da quel giorno iniziai a pigiare sulla tastiera. Avevo molto orecchio e volevo imparare sulle orme di zio Andrea. Ci riuscii nel tempo al punto che, già dagli anni del liceo, suonavo per gli amici e poi durante l’università, quando andavo in vacanza, facevo piano bar nei locali realizzando i miei primi guadagni».

Ritorniamo agli studi. Dopo la maturità classica s’iscrisse a medicina. Quanto incise sulla sua scelta il fatto che suo padre era medico?

«Fu una decisione del tutto spontanea e presa in piena libertà perché ho sempre pensato di fare il medico. Ricordo che da bambino un cugino di papà, zio Cicciotto, che viveva negli Stati Uniti, quando ci venne a trovare mi regalò una borsa da medico completa di tutti gli strumenti. Era il mio gioco preferito e giravo per casa cercando il mio paziente di turno. Mi chiamava Pat e da allora tutti mi chiamano così. Quando m’iscrissi alla facoltà di medicina, non esisteva ancora il numero chiuso per cui le lezioni si tenevano in un’affollatissima aula magna del Secondo Policlinico. A mano a mano che si andava avanti, molti studenti si ritiravano e così le lezioni cominciarono a essere fatte a gruppi di 20/25 studenti. Esame dopo esame la medicina mi entrava sempre più nel sangue e mi sono laureato nei tempi giusti, meno di sei anni, e con il massimo dei voti».

Dopo la laurea la difficile scelta della specializzazione. Perché pediatria?

«Al terzo anno noi studenti cominciavamo a orientarci su quale specializzazione al termine del corso di laurea. Ero indeciso tra oculistica e pediatria. La prima era motivata da un fatto che definirei tecnico. Quando mi sottoponevo alla periodica visita di controllo dal professore de Leonibus, rimanevo particolarmente colpito dagli strumenti che usava e che spesso trovavo sostituiti da altri perché era un medico al passo con le innovazioni tecnologiche. La seconda, invece, da un fatto di pancia, di istinto, perché ero naturalmente sempre in empatia con i più piccoli a partire dai miei cuginetti. Ebbi la fortuna di avere come direttore della scuola il grande professore Salvatore Auricchio».

Qual è stato l’indirizzo specifico della specializzazione in pediatria?

«Mi dedicai in modo particolare alla gastroenterologia pediatrica e al breath test che sono stati gli argomenti trattati nella mia tesi. Il relatore fu il professore Stefano Guendalini, un luminare a livello internazionale proprio in queste materie. Anche la specializzazione l’ho conseguita nei quattro anni previsti e con il massimo dei voti. Ricordo che fu l’ultimo anno in cui gli specializzandi non erano pagati».

Che cosa è il breath test?

«È una metodica che consente di fare diagnosi di intolleranza al lattosio. Si esegue misurando la quantità di ioni idrogeno emessi con il respiro in seguito a somministrazione al paziente di lattosio. Esposi gli argomenti trattati nella tesi al congresso annuale della Società Italiana di Pediatria che si tenne a Modena e il lavoro fu pubblicato sulla Rivista italiana di pediatria nel 1992».

Quando ha iniziato a lavorare come medico?

«Appena laureato cominciai a fare le guardie mediche notturne per la Usl 25, prevalentemente a Crispano. Quasi contemporaneamente ebbi un incarico presso l’ambulatorio della Circumvesuviana. Dopo la specializzazione collaborai con una pediatra di base che poi mi affidò lo studio perché ebbe una gravidanza difficile. Feci anche un’esperienza ospedaliera al Santobono per un anno con il professore Mario Guizzi che mi è stata molto utile per la mia formazione di specialista in pediatria».

La sistemazione definitiva quando avvenne?

«Avevo deciso di non fare la libera professione per cui partecipai al primo concorso pubblico che fu bandito. Riguardava la Usl 45, oggi Distretto 32, che comprende San Giovanni, Ponticelli e Barra. Quelli ospedalieri erano fermi da qualche tempo e continuarono a esserlo».

Di cosa si occupa nello specifico?

«Presi servizio a giugno del 1991 a San Giovanni a Teduccio come dirigente pediatra dell’Unità Operativa Materna Infantile. Mi interesso prevalentemente delle vaccinazioni per l’infanzia e del consultorio di pediatria dove si fanno i bilanci di salute del bambino seguendolo sia per quanto riguarda l’aspetto auxologico sia per quanto riguarda i vari aspetti del suo sviluppo. Nei compiti istituzionali del pediatra consultoriale vaccinatore non è inclusa l’attività ambulatoriale con la prescrizione di terapie e farmaci anche se poi, di fatto, capita di farla. Questo perché il bambino, sia al momento delle vaccinazioni, che sono di competenza infermieristica, sia durante le attività consultoriali, va visitato e se ha dei problemi le madri spesso chiedono consigli su come curarlo».

Come definirebbe la sua attività medica in quei territori?

«Sono zone di frontiera. Ricordo che alle spalle della nostra struttura di San Giovanni c’è un agglomerato di “grattacieli” addossati l’uno all’altro. È chiamato il Bronx. Le persone che vivono lì in generale non hanno la possibilità di ricorrere a visite specialistiche private. In particolare noi pediatri siamo per i genitori l’unico punto di riferimento e affidano alle nostre mani i loro figli dalla nascita fino al quattordicesimo anno compiuto. Fare il pediatra in quelle zone richiede veramente tanta passione, pazienza e comprensione. Lì ho capito che il mio è il mestiere più bello del mondo perché consente di entrare in empatia con gli unici esseri umani che vivono senza maschera e che consentono, perciò, di vedere nei loro occhi tutta la purezza dell’anima».

Ricorda qualche esperienza particolare nel corso della sua attività professionale?

«Sicuramente quella di tenere corsi preparto per le donne gravide insieme al ginecologo e allo psicologo. La mia attenzione era rivolta particolarmente alle primipare. Abbiamo tenuto questi corsi per moltissimi anni. Un altro momento molto significativo ha riguardato la somministrazione del vaccino contro l’epatite B all’indomani della sua scoperta. Formammo delle squadre composte da un pediatra e un infermiere e ci recammo nelle scuole della zona di nostra competenza per vaccinare il più grosso numero di popolazione in età pediatrica che fosse possibile. Io mi occupai di San Giovanni. L’ultima esperienza particolare in ordine di tempo è stata quella che ho fatto per i bambini di un campo rom del nostro territorio. Fino a quando non è scoppiata la pandemia ho dedicato un giorno alla settimana per offrire loro una opportuna copertura vaccinale».

In questo periodo di pandemia la vaccinazione antinfluenzale è di estrema attualità. È obbligatoria per chi è in età pediatrica?

«Le vaccinazioni obbligatorie attualmente sono: anti difterite, tetano, pertosse, poliomielite, epatite B, morbillo rosolia parotite varicella e anti haemofilus. Quelle raccomandate invece sono: antimeningococco tetravalente (ACWY), antimeningococco B, anti Rota virus, anti papilloma virus. A questa va aggiunta la vaccinazione antinfluenzale stagionale».

Quando ritiene necessaria la vaccinazione antinfluenzale stagionale e in quali casi nell’attuale periodo di pandemia?

«In via generale, come gli altri anni, ho consigliato di vaccinare i bambini cosiddetti a rischio, cioè quelli con problematiche respiratorie ricorrenti o con cardiopatie. Con la la pandemia ho consigliato di vaccinare anche tutti i bambini che frequentano asili nido e i primi anni della scuola primaria, perché fino a 5-6 anni di età hanno un sistema immunitario insufficiente e il rischio di ammalarsi anche di una banale influenza e in seguito di Covid potrebbe creare dei problemi. Superati i 6 anni ritengo, invece, che non debbano essere vaccinati perché il loro sistema immunitario comincia a lavorare in maniera molto efficace, per cui quelli che contraggono il contagio normalmente non si ammalano in maniera grave».

Quando non lavora che fa?

«Oltre a sciare, protetto da un efficace tutore, faccio piano jazz grazie a mia moglie che a un compleanno mi regalò dieci lezioni in questa specialità. Da allora continuo a studiare. Ho cominciato a suonare nei locali con un gruppo, poi con mia figlia, che canta e suona la chitarra e anche con mio figlio, che canta e suona il piano. Abbiamo partecipato anche ad alcuni concorsi. Quando gioca il Napoli, poi, dò libero sfogo al mio tifo che è ai limiti del patologico».