Magistrato, è stato presidente della Corte di Assise d’appello di Napoli ed è stato impegnato nei lavori della Commissione ministeriale per la redazione del nuovo codice penale. Pietro Lignola (nelle foto in palcoscenico e in tribunale) è opinionista del “Roma”, ha scritto anche per “il Tempo”, “Libero”, “il Giornale”, “L’Indipendente” e per il mensile “Il Monitore”. È giocatore di bridge e ha vinto per tre volte il campionato italiano e ha partecipato a competizioni internazionali conseguendo anche il titolo di campione della Comunità Europea come componente della rappresentativa italiana della categoria seniores. Attore e regista di teatro a livello amatoriale, ha scritto lavori teatrali in linga napoletana tra cui la fiaba “Petrusinella”, la commedia “Napule mo, Napulo tanno, Napule sempe” e una riduzione della commedia “La rosa” di Giulio Cesare Cortese. La sua opera più apprezzata è “’A zita ntussecosa e ’o massaro tuosto”, pubblicata da Guida nel 2004 (2a ed.) traduzione, direttamente in lingua napoletana, de “The Taming of the Shrew” di Shakespeare (“La bisbetica domata”). Ha partecipato al film “L’udienza è aperta” di Vincenzo Marra presentato al festival di Venezia nel quale è impegnato anche l’avvocato penalista Alfonso Martucci. «Sono nato al viale Elena, oggi chiamato viale Gramsci, toponimo che non riconosco, e sono figlio d’arte. Quando avevo appena nove mesi i miei genitori si trasferirono nella casa di famiglia al “Grottone di palazzo”, la via ora intitolata a Gennaro Serra. Fino a 5 anni ho avuto come tata una fräulein tedesca che poi tornò in patria appena la Germania dichiarò guerra. Quando l’Italia la seguì nel conflitto bellico, sfollammo a Ottajano. Ci rimanemmo fino a quando Napoli fu liberata dagli alleati, come racconta la storia».

Che ricordo ha di quel periodo?

«Lo definirei gioioso: insieme ai miei amichetti mi divertivo ad ammirare il cielo illuminato dai bengala lanciati dagli inglesi per vedere le zone da bombardare. Naturalmente le nostre mamme ci urlavano dietro impaurite. Per evitare le bombe ci trasferimmo, poi, alla Valle delle Delizie, un chilometro e mezzo sopra Ottajano, dove si coltiva l’uva catalanesca di Somma. Era una specie di vacanza, anche se dormivamo in 18 in un camerone, con i servizi fuori dell’abitazione. Con i miei piccoli compagni facevamo grandi scorpacciate di frutta. Un giorno scambiammo un albero di sorbe, peraltro acerbe, per uno di mele lazzaròle, quella piccole piccole. Stemmo malissimo e ci salì la febbre a 39. La nostra residenza forzata si complicò quando i tedeschi nascosero in una casa “scarrupata” di San Giuseppe Vesuviano un carro armato che ogni paio d’ore sparava colpi con il suo cannone. Gli alleati reagivano sistematicamente con un uragano di fuoco. Continuarono a farlo anche quando il carro armato andò via perché non se ne erano accorti. Tutto cessò grazie all’intervento del sindaco che si precipitò al comando e li informò. Una mattina mi svegliai tra le urla festose della gente: era l’8 settembre 1943. Andai all’aperto per vedere cosa fosse accaduto e sentii dire che era stato firmato l’armistizio e che la guerra era finita. Nella mia ingenuità di bambino dissi tra me e me: “ma come, abbiamo perso la guerra e urlano di gioia!”».

Tornato a Napoli dove proseguì gli studi?

«Come esterno all’Istituto Pontano dei padri gesuiti, fino alla maturità classica. Una delle prime esperienze fu quando una mattina mi chiamarono insieme ad altri ragazzi e ci portarono nel cortile dicendoci che volevano che facessimo i boy scout. Ci fecero mettere a quattro zampe e ci dissero che dovevamo fare il verso dei lupetti. Mi alzai indignato e me ne andai dicendo che non ero un pagliaccio. Poi, comunque, gli studi andarono sempre molto bene».

Perché si iscrisse alla facoltà di giurisprudenza?

«Fin dai tempi del liceo non avevo dubbi su quale sarebbe stato il mio futuro: volevo fare il magistrato e non avevo mai pensato di fare altro. Però il giudice, come mio padre e il nonno di mio nonno. Non ho mai ipotizzato di ricoprire il ruolo di pubblico ministero che considero un magistrato decisamente “atipico”, per usare un eufemismo. Amo la magistratura e per me i magistrati dovrebbero essere i sacerdoti della giustizia».

Qual è stata la sua prima destinazione?

«Dopo avere fatto un primo periodo di uditorato a Roma, che all’epoca era molto serio, fui mandato alla Pretura di Napoli, inizialmente come pretore penale. Poiché mi ero laureato con una tesi in procedura civile e, in particolare, in materia di esecuzione forzata, fui assegnato poi alle settima sezione come giudice dell’esecuzione. Ero fermamente deciso a rinunciare a qualsiasi trasferimento al Nord per due motivi: sono fedele figlio del Sud e amo il mare. Conseguentemente, sempre come uditore, andai al tribunale di Rossano, in Calabria».

Con quale incarico?

«Eravamo tre colleghi ancora uditori. Io ero il migliore in graduatoria e poiché mancava il presidente mi affidarono quelle funzioni».

Quindi, per un periodo è stato il presidente del Tribunale di Rossano Calabro?

«Per oltre un anno e mezzo, quando poi venne il collega titolare. In quel periodo per la prima e unica volta nella mia carriera ho svolto anche le funzioni di pubblico ministero».

Ci racconti.

«Si dovevano giudicare i componenti della “banda di Cariati” specializzata in truffe alle assicurazioni ed estorsioni. Per Rossano, dove all’epoca non esisteva criminalità organizzata, era il processo del “secolo”. Gli imputati erano difesi da un collegio presieduto dal professore Alfredo De Marsico e composto da una ventina di noti avvocati calabresi fra cui anche qualche importante esponente politico. Il mio collega, titolare della funzione di Pm, “per motivi personali” andò in ferie e io presi il suo posto. Fu una bella battaglia con requisitoria e replica finali intense e significative nei contenuti e nell’oratoria. Per il capo della banda chiesi 21 anni di reclusione. Il tribunale ne diede 17. Fu una bella vittoria».

Poi ritornò a Napoli dove ha terminato la sua carriera. Ci ricorda le varie “tappe”?

«Ero sposato, avevamo la figlia e il primo dei maschi ed era tempo di rientrare a casa. Il secondo maschio, il magistrato, è arrivato dopo. Ritornai alla settima civile come giudice dell’esecuzione. Poi in Tribunale, ove feci civile solo per un anno perché le cause di incidenti stradali mi annoivano. C’è stata una sola eccezione che mi ha lasciato un ricordo vivo. Si trattava di dare impulso a una causa iniziata nel lontano 1875 tra il proprietario del lago Lucrino, che all’epoca era privato, e il demanio marittimo che aveva costruito una diga. L’attore lamentava danni perché quella costruzione impediva che nel lago arrivasse l’acqua del mare con conseguente moria dei pesci che vi abitavano. La causa, passata nel “patrimonio” degli eredi succedutisi nel tempo, era in fase di stallo. Quando la questione mi fu sollecitata, dichiarai la domanda ammissibile, anche alla luce nella nuova situazione giuridica che nel frattempo era intervenuta intorno allo status del lago che da privato era diventato pubblico. Emisi, quindi, una sentenza parziale e nominai un consulente di ufficio per verificare il nesso di causalità tra la costruzione della diga e il danno lamentato. Non conosco l’esito della causa perché abbandonai il civile e andai a fare il giudice istruttore».

Il Codice Vassalli del 1988, entrato in vigore l’anno successivo con la riforma del processo penale, abolì la figura del giudice istruttore sostituendola con quella del giudice per le udienze preliminari. Questo cambiamento la indusse a fare il giudice in Corte d’Assise. Perché?

«Per me la riforma ha rovinato il processo. Si volevano mettere sullo stesso piano pubblico ministero e avvocato difensore, ma non è stato così. Addirittura è successo il contrario, perché i pubblici ministeri sono diventati i padroni del processo. Per quanto riguarda in particolare il giudice istruttore, questi sentiva i testimoni, le parti, faceva l'istruttoria e poi mandava le carte al pubblico ministero che formulava le sue richieste. Era il giudice istruttore a prendere la decisione. Il Pm oggi fa tutto lui e il Gip decide adottando un provvedimento praticamente su quello che ha stabilito il Pm».

Cinque anni in Corte d’Assise e poi presidente di Corte d’Assise d’Appello fino al pensionamento. Perché non è stato in Corte di Cassazione?

«Come uomo libero non ero ben visto da chi prende queste decisioni. Poi volevo rimanere a Napoli e vicino al mio mare».

Alla luce della sua lunga esperienza, come giudica oggi la magistratura?

«La valutazione dell’opinione pubblica la colloca al punto più basso, mai raggiunto prima. Me ne dispiace molto per i tantissimi colleghi onesti che fanno il loro lavoro e non hanno mai mendicato i favori di Palamara, Ermini e di tutti gli altri compagnucci, ormai noti grazie a un’inarrestabile campagna di stampa che ha travolto la diga mediatica governativa. Me ne dispiace anche per tutti quelli che s’illudevano sul conto di Mattarella ma, purtroppo, non è Cossiga. Ha aspettato sette giorni per dire che non poteva far niente. Eppure Ermini è il suo uomo che doveva custodire le capre (rubo il termine a Sgarbi) e invece le ha guidate a pascolare in giardino e in salotto! L’Associazione magistrati deve essere sciolta o almeno messa in condizione di non commettere più reati associativi. I pubblici ministeri debbono rispondere penalmente e civilmente dei loro “errori” davanti a un giudice esterno: un Tribunale dei Pm, come c’è il Tribunale dei ministri, composto di giuristi che non appartengano alla magistratura ordinaria, giusto per essere sicuri che non vi entri alcun amico di Palamara. Sarebbe troppo bello: come tornare ai tempi di mio padre, che nel 1918 mise alla porta, prima del ventotto ottobre, il segretario della Camera del Lavoro e poi, dopo quella data, il segretario del Pnf, i quali volevano dirgli come doveva gestire la Pretura di Torre».

Ora che è in pensione che cosa fa?

«Da due anni ho scoperto sul web il social Lyrics Translate, sul quale ho un account e fino a oggi ho pubblicato quasi 3.000 traduzioni dall’inglese, latino, francese, tedesco, linguadoca e galiziano in italiano e napoletano e dal napoletano in italiano e in altre lingue. Sono un profondo estimatore di Santa Hildegard von Bingen, una monaca cristiana del XII° secolo, scrittrice, mistica e teologa e autrice di una delle prime lingue artificiali di cui si abbiano notizie, la “Lingua ignota” (dal latino “lingua sconosciuta”), da lei utilizzata probabilmente per fini mistici. Tra l’altro ha scritto una raccolta di 69 canti gregoriani che mi piacciono molto. In questo periodo sto traducendo due cose: “Le Cantate di Natale” di Bach e “Le Stagioni” di Franz Joseph Haydn, il maestro di Mozart, il tutto dal tedesco in italiano e in napoletano».

Della sua passione per il teatro, come regista e attore, abbiamo parlato nella sintesi del suo profilo. In chiusura riteniamo, però, interessante chiederle dove è stata rappresentata la sua riduzione de “La rosa” di Giulio Cesare Cortese.

«Grazie alla benevolenza dell’indimenticabile sovrintendente Raffaele Causa, l’anteprima andò in scena al Teatrino della Reggia di Capodimonte. La “prima” la facemmo a Capri, al teatro della Certosa. Ebbe un notevole successo. Non potrò mai dimenticare il meraviglioso spettacolo visto da quel palcoscenico quasi affacciato nel vuoto, di notte, illuminato da un cielo stellato: ‘ sembrava di stare fuori dal mondo. Altri tempi, altre storie. Dopo quella volta, ho recitato solo nella Compagnia del mare del Circolo Posillipo, ove la parte che più mi ha divertito è stata quella del prete in “Non ti pago”, che arricchii di qualche particolare per rendere più reale il personaggio».