È laureato con lode in Fisioterapia alla Sun, oggi Università Luigi Vanvitelli. Le sue capacità e competenze sono particolarmente indirizzate verso la fisiokinesiterapia pre/post chirurgica relativamente agli esiti di intervento Lca, Ptg, Pta, protesi anatomica e/o inversa di spalla, artroscopia di spalla per riparazione dei tendini della cuffia dei rotatori; al recupero dopo lesioni muscolari di varie entità secondo la classificazione Ismult; alla rieducazione posturale con metodo Mezieres; al cyriax massaggio trasverso profondo; posturale e biofeedback; al core-stability. Procolo Testa (nella foto) è abilitato ed esperto in massoterapia e nell’uso della terapia strumentale. Vanta una vasta esperienza nel settore sanitario, finanziario e legale. Svolge la sua attività professionale allo Studio FisioElite, in via Palepoli a Napoli. È sposato con Maria. Hanno due figli: Greta, che ha quasi sette anni e Renato che il 7 aprile scorso ne ha compiuti quattro. «Sono nato a Napoli, ma ho studiato a Pozzuoli fino al diploma in ragioneria perché i miei genitori sono puteolani. Fin da ragazzo ho amato lo sport perché lo considero una ragione di vita. All’età di 10 anni ho cominciato a giocare a minibasket a Monterusciello. Ho fatto tutte le categorie giovanili nella Puteoli basket».

Perché dopo il diploma non decise di iscriversi all’università, alla facoltà di economia e commercio?

«Mio padre, uomo di numerose virtù, ha condizionato fortemente le mie scelte...».

Perché?

«La sua attività era quella di grossista di generi alimentari e puntualmente ogni lunedì mi veniva a prendere alla fine degli allenamenti di minibasket e mi portava con lui nel giro delle sue commissioni. Il suo lavoro mi interessava e, poiché sono di natura particolarmente curioso, gli facevo domande su un ordine, sul margine di guadagno che aveva sulla vendita di un prodotto e così via. Eludeva i miei interrogativi e mi rispondeva sempre: “pensa a studiare”. Eppure a quell’età desideravo intraprendere la sua attività lavorativa, mi sarebbe bastato un piccolo incoraggiamento. Non c’è mai stato e allora ne soffrivo. Oggi penso che sia stata la mia fortuna».

Come mai si orientò verso la fisioterapia?

«A posteriori penso che la mia scelta, sicuramente “singolare” in riferimento al mio titolo di studio, è dipesa da due fattori. Il primo furono due infortuni che ebbi a distanta di poco tempo l’uno dall’altro. Caddi guidando il ciclomotore di mio padre e riportai la frattura della tibia e del perone. L’ortopedico purtroppo non operò proprio “a regola d’arte”. Dopo solo tre mesi, poi, mi fratturai il polso sinistro. Continuai a giocare a basket nonostante l’ingessatura che si indebolì per le ripetute “botte” con la conseguenza che l’articolazione non era più bloccata e la calcificazione non si formò in maniera perfetta. Dopo 40 giorni l’ortopedico dovette intervenire manualmente sul callo osseo e provai un dolore indescrivibile. Queste due esperienze mi fecero capire che sia a livello ortopedico che a quello fisioterapico sicuramente si sarebbe potuto e dovuto fare meglio. Pensai che io avrei messo più impegno, diligenza e professionalità. Allora per la prima volta cominciai seriamente a interessarmi a quella branca medica».

Il secondo motivo quale fu?

«Secondo per importanza ma primo in ordine di tempo. Mio cugino più grande di me era ed è fisioterapista. Da ragazzino mi faceva andare allo stadio con lui a vedere le partite del Napoli di cui sono tifosissimo. Quando un calciatore subiva un infortunio faceva immediatamente la diagnosi spiegandomi quale tipo di fisioterapia gli avrebbe fatto per rimetterlo rapidamente in sesto. Rimasi particolamente colpito da quello che accadde durante la partita del 22 ottobre 2000 che il Napoli perse in casa contro il Bologna con un clamoroso 5 a 1. Avevamo subito un gol e a metà del primo tempo il nostro portiere Coppola rilanciò in maniera sciagurata il pallone che colpì la testa del difensore Baldini ed entrò in rete siglando il raddoppio per i felsinei. Scoppiarono disordini violenti nello stadio e nell’antistadio che poi si estesero anche fuori del San Paolo. Vidi gente che ruzzolava dagli spalti e seggiolini scardinati. Le sirene delle ambulanze cominciarono a suonare incessantemente. La mia mente corse immediatamente alle persone non solo ferite ma anche con arti contusi e fratturati e nel mio subconscio, evidentemente, fece capolino quell’idea che di lì a qualche anno si trasformò in una ferma decisione: avrei fatto per professione il fisioterapista».

Superò subito i quiz d’ingresso a fisioterapia?

«Il primo tentativo andò male ma non mi scoraggiai perché il mio motto è un aforisma attribuito a Eleanor Roosevelt: “Il futuro appartiene a coloro che credono nella bellezza dei propri sogni”. Ebbi la fortuna di fare un anno di pratica strumentale presso il centro di fisioterapia Serapide. Applicavo, cioè, le macchine per la terapia laser, per la magnetoterapia e così via. Contemporaneamente m’iscrissi a un corso di massoterapia a pagamento a Perugia ma poi lo lasciai perché tentai per la seconda volta i test di accesso al Vecchio Policlinico. Questa volta li superai classificandomi tredicesimo».

Dove fu “assegnato”?

«All’ospedale Moscati di Avellino. Facevo il pendolare e ogni giorno partivo da Pozzuoli alle cinque del mattino per arrivare in tempo al nosocomio. Ci sono rimasto un anno e mezzo poi chiesi e ottenni il trasferimento a Napoli presso il Policlinico Vecchio dove ho conseguito la laurea triennale con lode».

Quando ha iniziato a lavorare?

«Quasi subito, presso la sede di Monte di Procida del Centro Serapide. Era un’unità operativa abbastanza tranquilla con pazienti prevalentemete in età “geriatrica”. Dopo un anno passai alla sede di Villaricca, quindi fui assunto a tempo indeterminato nel Centro di Arco Felice che è il fiore all’occhiello della società».

E lo sport?

«Continuavo a praticare la pallacanestro a livello agonistico. Avevo iniziato a militare in C2 e in un incontro svoltosi ad Amalfi ebbi un altro infortunio abbastanza serio. Caddi con la schiena a terra e il medico che mi visitò disse che non avrei più potuto giocare. Piansi come non mai ma fu una diagnosi “poco felice” perché fortunatamente le cose andarono diversamente e ho giocato a livello agonistico fino all’età di ventisette anni. Quando militavo nella Felix Napoli ho avuto come allenatore il grande giocatore e allenatore statunitense John Leslie Fultz. Mi chiamava “Prockstar”. Ho giocato anche in C1, a Pianura, ed eravamo nel girone Sardegna e Lazio. Ho chiuso con l’Arzano per un’incomprensione con l’allenatore».

Lo sport per lei è vita. Dopo la pallacanestro in cosa si cimentò?

«Da ragazzino ho giocato anche a tennis e, con grande gioia, da adulto, scoprii il beach tennis, il tennis da spiaggia. Iniziai al Lido Vittoria a Licola. Per due volte ho rappresentato la Campania a livello nazionale nei campionati a squadre. L’ultima è stata due anni fa. Oggi lo pratico a Varcaturo, al Lido Gallo e ho vinto diversi tornei. Recentemente pratico anche il Paddle tennis».

Che cos’è?

«È uno sport nato in Argentina e si sviluppa in modo simile al tennis. Il campo da gioco è circondato da vetri e griglie con cui si può interagire: non esiste il “fuori campo”, ma non è possibile giocare direttamente sulle sponde. Va molto di moda e si cimentano in tanti, anche con qualche rischio perché non tutti hanno una preparazione atletica sufficiente».

Ritornando al lavoro, quando ha deciso di mettersi in proprio?

«Dopo quattro anni di esperienza al centro Serapide di Arco Felice mi sentii pronto per il grande salto di qualità. Avevo imparato veramente molto sia dalla pratica quotidiana sia osservando e rubando il mestire ai colleghi più anziani e più esperti. Fedele al mio motto, decisi di realizzare il mio sogno: avere un centro tutto mio. Ne parlai con un collega e amico più grande, Pierluigi Di Tonto anche lui molto motivato e pieno di iniziative. Quando il progetto fu pronto presi la decisione di lasciare il “posto fisso” al Serapide. Dovetti vincere la tenace opposizione dei miei genitori, soprattutto di mio padre che era molto preoccupato perché lasciavo il certo per l’incerto. Ma fui irremovibile e il 20 giugno del 2011 mi licenziai e aprimmo dopo poco lo Studio Fisioelite-Fisioterapia & Riabilitazione, in via Palepoli, a Santa Lucia dove tuttora esercitiamo con notevole soddisfazione e successo professionale. A Pierluigi e a me si unì un altro collega, Gaetano Ruoppo».

È stato difficile “l’avvio”?

«Sinceramente no perché eravamo già conosciuti nel campo e ben presto avviammo una collaborazione molto stretta e proficua con due bravi e noti ortopedici, Antonio Arienzo ed Emanuele Somma, titolari dello Studio Arts, in via Generale Orsini, quindi vicino al nostro. Dico sempre che insieme abbiamo creato a Napoli una piccola Villa Stuart». Qual è la sua specializzazione? «Il nostro è un lavoro di squadra perché solo in questo modo si possono realizzare risultati ottimali, Comunque ho una particolare esperienza e competenza nella spalla e nel ginocchio».

Che cos’è la spalla?

«L’articolazione più complessa, più sofisticata e con maggiori possibilità di movimento di tutto l’organismo. Formata da ossa (omero, scapola e clavicola) e legamenti, è associata a tendini, muscoli, nervi che ne permettono i movimenti, e vasi sanguigni che consentono la sopravvivenza dei tessuti che la compongono. Connette braccio e mano al tronco e permette di muoverli e posizionarli come si desidera. Consente i movimenti ad ampio raggio che possono essere compiuti con il braccio. Il dolore alla spalla è frequente e invalidante e in molti casi il paziente che ne soffre trae beneficio da riabilitazione e terapie fisiche. Poi ci sono le patologie che richiedono un trattamento chirurgico seguito da fisioterpia».

Il ginocchio invece?

«È un’articolazione formata dall’incontro di tre ossa: femore, tibia e rotula le cui superfici sono rivestite dalla cartilagine che le protegge. Tra il femore e la tibia è presente un’altra struttura fibrocartilaginea, il menisco, che assorbe gli shock prevenendo il contatto fra le ossa durante attività fisiche intense, come correre e saltare. Le ossa sono circondate da una capsula avvolta dalla membrana responsabile della produzione del liquido sinoviale, deputato alla lubrificazione dell’articolazione. La capsula a sua volta è in connessione diretta con i legamenti che mantengono il ginocchio in posizione, ne rafforzano la struttura e garantiscono il corretto posizionamento delle ossa».

Com’è la clientela dello studio?

«Trasversale e comprende tutte le fasce d’età. Naturalmente lo zoccolo duro è costituito da persone che abitano o lavorano nella rinomata zona cittadina, ma abbiamo numerosi pazienti che vengono anche da lontano. Nel mondo specificamente dello sport, oltre ad atleti singoli, assistiamo la squadra femminile di calcio del Napoli di serie A e, con a capo il dottor Nino D’Alicandro, la Gevi Napoli che milita nel campionato A2 maschile di basket. Fino allo scorso anno abbiamo anche assistito la squadra del Posillipo di pallanuoto e il Napoli di Calcio a 5 in serie A».

Qual è la sua più grande soddisfazione professionale?

«Ogni paziente ha la sua storia e i risultati conseguiti sono sempre premianti. Però la massima gratificazione la ottengo quando viene da me un paziente che non può dormire per il dolore e che a fine terapia mi dice: “dottore finalmente dormo, mi ha ridato la vita”».

Tanto lavoro e tanto sport. Quali interessi condivide con la famiglia?

«Prima della pandemia, cinema e teatro con mia moglie. Entrambi amiamo fare passeggiate domenicali con i bambini visitando i “templi” della nostra cultura. L’ultima visita l’abbiamo fatta al Maschio Angioino. In agenda ci sono tante altre tappe che speriamo possano riprendere quanto prima. Siamo convinti che fin dalla tenera età i giovani debbano imparare a conoscere le proprie radici per amarle, rispettarle e preservarle dalle contaminazioni negative che tendono a distruggerle. Per andare fuori dal “recinto”, viaggiare oltre il proprio territorio, di tempo per loro ce n’è tanto».