Laureato in medicina e chirurgia, Gabriele Riccardi (nella foto) è specializzato in medicina interna con diabetologia, nutrizione umana, malattie del metabolismo come discipline di Eminenza. È stato professore ordinario di Endocrinologia e malattie del metabolismo presso l’Università Federico II di Napoli con afferenza al Dipartimento di medicina clinica e chirurgia e direttore Unità operativa complessa di diabetologia, Azienda ospedaliera universitaria Federico II. Ha ricoperto la carica di presidente della Società italiana di diabetologia. È autore di numerose pubblicazioni scientifiche, ha scritto il libro “Il diabete si vince a tavola”, edito da Rogiosi Editore.

«Sono nato a Ponticelli, un quartiere operaio di Napoli. Ho frequentato le medie alla scuola Benedetto Croce, a via Foria. Poi mi iscrissi al liceo classico “Genovesi”, a piazza del Gesù. La mia giovinezza è stata caratterizzata dall’impegno con l’Azione cattolica, prima a livello parrocchiale e poi diocesano. Ricordo che tra le iniziative sociali c’era quella della raccolta degli stracci. Eravamo giovani chiffonier, come Charles Baudelaire denominò gli attuali cenciaioli dedicando loro una poesia. La raccolta nel quartiere rappresentava un evento molto sentito e durava per un’intera settimana. Giravamo casa per casa e con il ricavato della vendita aiutavamo le persone meno abbienti. Fui tra i fondatori del Friendship Club, un circolo dell’amicizia tendenzialmente laico, ma comunque legato alla parrocchia. La nostra missione era tenere lontano dalla strada i ragazzini coinvolgendoli in iniziative culturali e ludiche finalizzate ad educarli a una socialità fondata sulla tolleranza e il rispetto reciproco. Ho continuato in questo impegno nel sociale fino ai primi anni di università».

Cosa ha rappresentato per lei la militanza in quest’associazione?

«Una fondamentale palestra per la mia formazione. Mi ha insegnato l’importanza della solidarietà e mi ha inculcato lo spirito di servizio per essere sempre a disposizione degli altri».

Questo tipo di formazione ha contribuito a farle decidere di iscriversi a medicina?

«Mi piaceva molto la filosofia ed ero affascinato dall’idea di potere diventare uno studioso di questa materia. Ma prevalse in me l’intima esigenza di rendermi utile alle persone e nessuno meglio del medico avrebbe potuto farlo. Avevo come unico riferimento in famiglia il marito di una sorella di mamma. Era medico condotto e ha rappresentato un grande esempio di altruismo e abnegazione».

Veniva da un liceo a vocazione umanistica. Come se la cavò con le materie scientifiche che caratterizzano il biennio di medicina?

«Il liceo “Genovesi” ai miei tempi era una scuola selettiva con professori molto esigenti e severi. In modo particolare lo era il professore di latino e greco, si chiamava Antonio De Marino. Ha insegnato a tutti i suoi allievi, me incluso, a studiare con impegno e rigore e questo mi ha preparato a sostenere ritmi serrati soprattutto per lo studio delle materie in cui mi sentivo debole come chimica, fisica, biologia. Ogni mattina andavo all’Università con i mezzi pubblici per seguire le lezioni in calendario. Erano gli anni del boom degli iscritti alla facoltà di medicina. Spesso la prima lezione era alle 8 del mattino e bisognava essere ai cancelli alle 7,30 per non restare fuori dall’aula giacché eravamo numerosissimi. La lezione successiva era spesso fissata dopo diverse ore; in quel lungo intervallo andavo nella biblioteca a studiare. Del primo anno ricordo con un senso di disagio ma anche con entusiasmo l’esame di Anatomia».

Perché?

«Può sembrare contraddittorio ma non lo è. L’impatto con la sala settoria dal punto emotivo era molto forte e non tutti riuscivano a sostenerlo. Il cadavere veniva dissezionato e a ogni gruppo di studenti, guidati da un assistente, veniva dato un arto o un organo perché fosse esaminato e studiato. Certamente non si assisteva a un bello spettacolo. Di contro c’era l’entusiasmo di vedere in concreto e con chiarezza quello che si studiava sui libri e che senza la pratica appariva complicato e a volte anche incomprensibile».

L’esame fu gratificante?

«Certo e lo superai brillantemente ma fui maggiormente stimolato dall’esame di Fisiologia. Studiando quella materia capii che il mio vero interesse era rivolto al funzionamento del corpo umano e non alla sua manipolazione, oltretutto cruenta, che si fa con la chirurgia».

Su quale internato, quindi, si orientò?

«Sulla Medicina interna e iniziò nell’immediato post Sessantotto, quando si usciva dal periodo dei grandi capi scuola come Zannini in chirurgia generale e Magrassi in medicina interna. Le cattedre cominciavano a essere suddivise a diversi docenti cui era affidato un minore numero di studenti. Io ebbi la fortuna di capitare con il professore Mario Mancini, oggi professore emerito di Clinica medica. È una persona che ha segnato una svolta epocale nella cultura medica e nel metodo di insegnamento a livello nazionale e internazionale. Le sue lezioni erano ben distanti dal cerimoniale ampolloso e dai contenuti autoreferenziali che erano frequenti in quell’epoca, ed erano caratterizzate dal dialogo con gli studenti e dal frequente riferimento a ricerche importanti e innovative fatte da lui personalmente in Inghilterra e negli Stati Uniti. Capii che quello era il terreno su cui volevo misurarmi. Gli chiesi se potevo frequentare il suo laboratorio. Esaminò il mio curriculum e mi accettò in prova per qualche mese; fu sciolta ogni riserva quando verificò che ero in grado di studiare su testi in inglese e che ero assiduo e affidabile in corsia e nel laboratorio. Avevo l’occasione di fare quello che realmente volevo: entrare in contatto con i pazienti e interfacciarmi con la medicina clinica in una prospettiva internazionale».

Di che cosa si occupava in particolare il professore Mancini?

«Il suo interesse principale riguardava il ruolo dei lipidi del sangue nello sviluppo dell’arteriosclerosi. Su questo argomento aveva prodotto molto ed era conosciuto a livello internazionale. È stato il primo a parlare in Italia dell’importanza di un alto livello di colesterolo nel sangue per lo sviluppo delle patologie cardiovascolari. Aveva fatto studi su questo argomento con il noto scienziato Ancel Keys, padre della dieta mediterranea, presso l’Università del Minnesota negli Stati Uniti e presso l’Hammersmith Hospital di Londra».

A lei quale compito affidò?

«Dovevo studiare il metabolismo delle lipoproteine in giovani adulti che avevano avuto un infarto. Andavo ogni mattina alla Medicina d’urgenza del Cardarelli e raccoglievo i dati anamnestici dalle cartelle di quelli che avevano avuto un infarto nelle 24/48 ore precedenti. Poi, con il consenso dei medici del reparto e del paziente, raccoglievo un campione di sangue per il dosaggio delle lipoproteine che veniva eseguito nel laboratorio della Semeiotica medica diretta dal professore Mancini. Questa analisi era a quei tempi alquanto indaginosa perché non solo separavamo il colesterolo aterogeno da quello anti aterogeno, le Hdl, ma dosavamo anche trigliceridi, fosfolipidi e le proteine ad essi legate. Era un’esperienza per me entusiasmante perché mi apriva a una medicina che partiva dalla clinica ma andava alla ricerca delle cause della malattia grazie ad esami strumentali e al laboratorio. Si passava dalla diagnosi per intuito a quella basata sulla prova scientifica delle alterazioni funzionali del corpo umano. Mi ero avvicinato alla medicina per passione ma ora dovevo confrontarmi con la scienza: stavo imparando che un buon medico non deve avere solo cuore ma anche tanto cervello. Questa “trasformazione” comunque non m’impedì di continuare a coltivare il rapporto con il paziente; frequentavo regolarmente il reparto e seguivo in ambulatorio, praticamente da solo, i pazienti che avevano partecipato alla ricerca».

Dopo la laurea cosa fece?

«Il professore Mancini aveva selezionato un gruppo di pochi allievi che riteneva idonei a collaborare con lui anche dopo la laurea. Tra questi c’ero anche io. Ci disse che se volevamo rimanere con lui la “conditio sine qua non” era di andare all’estero a fare esperienza di ricerca in una dimensione internazionale. Era un’occasione di crescita professionale irripetibile e accettai senza esitazione. Mi chiese di interessarmi di diabete, patologia di cui non si era mai occupato. I diabetici erano in continuo aumento e la loro malattia aveva ricadute importanti sul metabolismo dei lipidi e sulle patologie cardiovascolari per cui bisognava prenderla in seria considerazione».

Dove si recò?

«Al Karolinska Hospital di Stoccolma, in Svezia, un “Santuario” della ricerca medica: è lì che viene assegnato il Nobel per la medicina. Il mio punto di riferimento fu il professore Carlson che dirigeva un’equipe all’avanguardia nella ricerca sulle alterazioni lipidiche collegate al diabete. Le metodologie che utilizzavamo erano di pertinenza della fisiologia clinica e, cioè, valutavamo alcune funzioni del corpo umano e le loro alterazioni in presenza di malattie come il diabete. Fino ad allora questi studi erano fatti solo sugli animali. Ricordo le nostre ricerche sull’esercizio fisico i cui risultati dimostravano che l’attività motoria prolungata modifica in maniera duratura il metabolismo. Con questi studi scoprimmo che essa non solo riduceva i grassi nel sangue ma aiutava a consumare glucosio senza il contributo dell’insulina che, come è noto, è carente nelle persone con diabete. Nel frattempo, mi ero sposato con la mia fidanzata napoletana che volle condividere con me questa esperienza a Stoccolma».

Quando tempo è rimasto in Svezia?

«Due anni, e poco prima del rientro in Italia eravamo in attesa della nostra primogenita. Rientrai alla Federico II dove c’erano delle buone opportunità di inserimento lavorativo perché era una struttura giovane e in crescita. Tuttavia, i tempi di una sistemazione si allungavano e, dovendo mantenere la famiglia in quanto mia moglie non lavorava ancora, ero alquanto in ansia. Vinsi un concorso al Comune di Napoli come medico igienista e stavo per accettare l’incarico quando fui assunto all’Università con compiti esclusivamente assistenziali. Facevo il medico nella struttura diretta dal professore Mancini ma alla ricerca potevo dedicarmi solo nel tempo libero dall’attività clinica».

Poi ci fu la grande riforma universitaria del 1980. Come la riguardò?

«Furono fatti esami valutativi di varie figure universitarie precarie tra cui la mia. Lo superai e divenni ricercatore, cioè strutturato a tempo indeterminato. Era nata la primogenita e subito dopo il secondo figlio, ma finalmente non avevo problemi economici. Mi fu affidata la responsabilità dell’attività clinica e di ricerca nell’ambito della diabetologia che cominciò ad essere attiva nel Policlinico della Federico II nel 1980».

Fu creato un reparto tutto suo?

«Non subito. Il professore Mancini mi affidò 6 dei 30 posti letto del suo reparto e la responsabilità dell’ambulatorio del diabete. La supervisione complessiva era sua ma mi lasciava grande autonomia».

Fu l’inizio della sua carriera. Come si sviluppò?

«Cominciai a prendere contatti di collaborazione scientifica con i principali centri di diabetologia in Italia e all’estero e afferii alla Società italiana di diabetologia a cui fanno capo i ricercatori e i clinici che operano nell’ambito di questa disciplina. Fui affiancato dalla collega Angela Rivellese, che ha condiviso con me nel corso degli anni l’esperienza assistenziale e scientifica, e da un gruppo di giovani collaboratori. Dopo 10 anni diventai professore associato e successivamente professore ordinario di Endocrinologia e malattie del metabolismo».

Ha scritto il libro “Il diabete si vince a tavola”. Senza volerci sottrarre alla sua lettura, qual è il messaggio terapeutico che contiene?

«Questo libro illustra, in modo semplice e accessibile a tutti, i principi a cui si deve ispirare l’alimentazione della persona con diabete o di chi è a rischio di sviluppare questa malattia».

Come occupa il tempo da pensionato?

«Ho una gratificante vita sociale, insieme a mia moglie, caratterizzata soprattutto dalla comune passione per il teatro e i concerti. Continuo a fare ricerca e un paio di volte alla settimana vado al Policlinico per seguire l’attività scientifica di laureandi o giovani laureati. Dedico tanto tempo alla mia amata nipotina Norma che regala tanta gioia a mia moglie e a me».