Roberto D’Ajello (nella foto), napoletano verace, ha percorso tutte le tappe della sua prestigiosa carriera di magistrato, conclusa da Avvocato Generale presso la Corte d’Appello di Napoli. Ama dire che ha “dovuto mollare nel 2009, dopo cinquant’anni, tre mesi e sei giorni di onorato servizio, essendo incorso nell’incidente di aver compiuto 75 anni”. Ha pubblicato numerosi libri, pietre miliari della letteratura partenopea, il penultimo dei quali, la traduzione in napoletano di “Alice dietro lo specchio”, ha visto la luce lunedì scorso.

«Nasco a Napoli, a via Cesare Rosaroll, con l’aiuto di mio nonno materno, che era medico-chirurgo-ostetrico. A quei tempi non c’erano tanti specialisti. Scoppiata la guerra, con mio fratello minore e mia madre andai “sfollato”, prima a Caserta e poi a Messercola, una frazione di Santa Maria a Vico. Quando avevo sette anni morì papà e la mia vita cambiò radicalmente. Era avvocato e si chiamava Carlo, come ora mio figlio».

Quando è rientrato a Napoli?

«Dopo un periodo trascorso ad Avella, il paese di mio nonno materno. Andai ospite di un fratello di mamma, un chirurgo che abitava a piazza Leonardo. Lì ho conosciuto Mimì Lepore, che è quindi il mio più vecchio amico. L’ho rincontrato molti anni dopo in magistratura. Finalmente poi siamo ritornati a via Rosaroll nella casa natale».

Dopo il diploma di maturità scelse la facoltà di giurisprudenza. Perché?

«Volevo fare il medico o l’architetto, ma misi da parte qualsiasi desiderio e scelsi giurisprudenza: mi sarei potuto laureare più rapidamente e poi avrei avuto più opportunità di lavoro».

Ha mai pensato di fare l’avvocato come suo padre?

«Avrei voluto, ma non avevo uno studio al quale appoggiarmi. Pensai di concorrere per l’Avvocatura dello Stato: avrei raggiunto il duplice obiettivo di seguire le orme paterne e di avere una sistemazione definitiva sotto l’aspetto economico. Ne avevo assoluto bisogno perché volevo sposare Maria Carolina, per tutti Carla, ragazza deliziosa che avevo conosciuto sin dal primo anno di giurisprudenza. Andai per consiglio da un amico di famiglia, avvocato dello Stato. Mi suggerì di fare il concorso in magistratura, superato il quale sarebbe stato più facile accedere all’avvocatura. Sceso in strada trovai in un’edicola il bando di concorso per magistrato, feci la domanda e mi preparai da solo, molto approssimativamente, perché il corso del presidente Guido Capozzi, cui aspiravo, era già iniziato».

Come andò?

«Ebbi un gran colpo di fortuna perché superai gli scritti, se pur con voti non molto alti. E siccome ero tra i più giovani vincitori, ebbi un bassissimo posto in graduatoria. Mi sarei riscattato alla successiva prova di aggiunto ».

Qual è stata la sua prima sede?

«Caltagirone, come uditore vice pretore. Allora, dopo i due anni di uditorato, per restare in servizio bisognava superare l’esame di aggiunto giudiziario. Che si poteva ripetere solo una volta, con prove scritte e orali molto difficili. Tirai fuori il meglio di me stesso, studiando con l’aiuto di Carla, anch’essa giurisperita».

Quando si era sposato?

«Il 6 ottobre, due giorni dopo aver preso servizio a Caltagirone. E temo di aver fatto una pessima impressione ai futuri colleghi quando mi presentai da loro in pretura ».

Perché?

«Da “perfetto napoletano” arrivai fresco fresco, firmai e dissi loro che dovevo rientrare subito a Napoli per sposarmi. Mi fecero gli auguri e mi dissero: “Allora ci vediamo tra quindici giorni”. Risposi: “Veramente ci rivedremo tra quarantacinque, perché ho ancora da godere trenta giorni di ferie”. Poi col lavoro conquistai la loro stima e diventammo amicissimi, al punto che quando andai via versammo tutti fiumi di lacrime».

Diventò aggiunto giudiziario?

«E ci mancherebbe altro! In caso contrario sarebbe stata una tragedia. Avevo già una figlia. Fui mandato in Sila, a San Giovanni in Fiore, un posto sperduto, freddo d’inverno e caldo d’estate. Come pretore unico facevo sia il civile che il penale. Poi, finalmente su mia richiesta, raggiunsi il tribunale di Paola, di nuova istituzione ».

Con quale incarico?

«L’ho inaugurato io, ne avevo perfino le chiavi. Facevo tutto, anche il giudice istruttore penale, cuore e cervello del processo. La sentenza dibattimentale numero 1 ha la mia firma da presidente».

Mise casa con la famiglia?

«No, facevo il pendolare. Mia moglie era a Napoli con i due bambini. Andai a vivere in una specie di stabilimento balneare».

In che senso?

«Cercavo una camera insieme al mio collega Luigi Giampaolino. Ne trovai una in un albergo, ma non aveva il bidet. Sorpreso e incuriosito chiesi spiegazioni al cameriere. Mi rispose che l’ordigno era solo nelle camere matrimoniali perché lo usavano le “fimmene”. Confessai la mia “diversità” e io e Gigi scoprimmo una specie di castello sulla spiaggia: una trattoria con quattro o cinque camere da letto. Lì il bidet c’era, anche se mobile su quattro piedi. Vi ho soggiornato circa tre anni».

Finalmente nel marzo del 1968 ottenne il trasferimento a Napoli. Dove fu assegnato?

«Alla Pretura di Barra, con competenza territoriale molto ampia, ove mi dedicai prevalentemente al penale, che dirigevo».

Qual è stato il motivo che l’ha spinto a fare solo penale?

«È una scelta maturata da sempre perché la mia idea di fare giustizia era quella di assumermene tutte le responsabilità. Dovevo indagare io e non dipendere dalle parti, come avviene nel civile, ove la causa è impostata dagli avvocati. Avrei fatto il pretore a vita se questo ruolo non fosse stato abolito».

Come mai?

«Era un magistrato monocratico che, non solo giudicava, ma faceva anche la preliminare fase istruttoria. Nel mio caso, quando in Sila rinviavo a giudizio un imputato “davanti a me”, ne era prevedibile la condanna. Eppure la mia grande soddisfazione era se poi lo assolvevo in dibattimento; a riprova della mancanza di pregiudizi e del rispetto del ruolo della difesa».

È stato a lungo giudice istruttore nel famoso “Palazzetto”. Tra i tanti processi che ha istruito ne ricorda qualcuno in particolare?

«Allora non c’erano le assegnazioni automatiche ma ad personam e il capo dell’ufficio, il presidente Francesco Cedrangolo, le rogne le mollava a chi sapeva lui, e siccome mi stimava molto, io ero uno delle sue “vittime”. Ho istruito processi a carico di Cutolo, di ’o Malommo, di esponenti del clan Moccia di Afragola e anche di terroristi dei Nap».

Da inquirente è diventato poi giudicante. Come presidente della Corte d’Assise qual è stato il processo più impegnativo?

«Ho presieduto il processo di terrorismo tra i più importanti d’Italia, con 81 imputati delle Brigate rosse. Tra i reati vi erano gli omicidi Amato, Ammaturo, Delcogliano, il sequestro Cirillo e la strage della sua scorta, gli azzoppamenti Giovine e Siola e altri gravissimi delitti. Il solo dispositivo della sentenza fu di circa 80 pagine».

Poi, nel 1988, esce il nuovo codice di procedura penale. Che impatto ebbe su di lei?

«È stata una delle più grosse balordaggini mai fatte da legislatore. Furono aboliti pretore e giudice istruttore e il presidente della Corte d’Assise diventò di fatto… un giudice civile».

Può essere più chiaro?

«Prima della riforma studiavo gli atti, sapevo quello che avevano detto testi e imputati agli inquirenti e al giudice istruttore ed ero io a condurre una imparziale indagine dibattimentale. Col nuovo codice ero in balia della pubblica accusa e della difesa perché l’acquisizione della prova doveva avvenire in dibattimento davanti a un giudice… ignorante e inoperoso. In sostanza, mentre prima il presidente imparziale aveva la responsabilità di cercare la prova per fare giustizia, ora l’avvocato difensore la articola e propone per fare assolvere il suo assistito, il pubblico ministero per farlo condannare».

Qual è stato l’ultimo processo che ha fatto?

«Il processo “Mariano” con 80 imputati e mezzo migliaio di testimoni. È stato terribile perché celebrato brancolando nel buio della nuova procedura, e con un giovane Pm che non conosceva gli atti (migliaia di pagine). Così mi sono detto che non potevo continuare a fare il giudice penale e me ne sono andato».

E che cosa ha fatto?

«Il procuratore aggiunto di Agostino Cordova. Il primo posto disponibile. Fui anche il suo vicario perché più anziano. Ho chiuso la carriera come avvocato generale e sono andato in pensione come procuratore generale aggiunto della Cassazione».

Ha definito scherzosamente secondario il suo ”mestiere” di magistrato, un hobby, perché il principale è quello di letterato.

«Come scrittore credo di aver fatto moltissimo per la tutela e valorizzazione della lingua napoletana. Basti pensare allo Award of Excellence vinto a New York il 21 novembre 2015 per la traduzione in napoletano di “Alice nel Paese delle Meraviglie”».

Come è nata questa passione tanto originale quanto difficile?

«La vena poetica l’avevo fin da bambino e ho sempre curato la scrittura. Il mio amico Renato de Falco, di cui sono grande ammiratore, mi invitò alla presentazione della sua traduzione in napoletano del Vangelo di Matteo. Incuriosito e affascinato, decisi di imitarlo e scelsi il libro di Pinocchio, sentendo il suo umorismo molto vicino. Ultimai la traduzione dopo qualche anno e a Capri la feci leggere a Renato, cui piacque molto. Grazie a un altro carissimo amico, Elio Palombi, che conosceva l’editore Grimaldi, riuscii a farlo pubblicare».

Dove lo presentò?

«Al Grenoble, e lì conobbi Jean Noël Schifano, noto scrittore innamorato di Napoli. Andai a cena con lui e con Lello Esposito, che aveva curato le illustrazioni del libro. Mi propose di tradurre “Il piccolo principe”, che io non avevo mai letto. Grimaldi non era interessato alla pubblicazione. A Sorrento conobbi l’editore Franco Di Mauro. Mi disse: “Presidente, quando facciamo un cornetto a Grimaldi?”. Gli dissi del “Piccolo principe” e lui immediatamente s’impegnò a pubblicarlo. Poi, la moglie di Lello Esposito, docente universitaria d’inglese, mi propose di tradurre “A Christmas Carol” di Dickens. Così ha avuto inizio la mia produzione letteraria».

Quanti libri ha pubblicato?

«Oltre 25 tra traduzioni, poesie, racconti e nove raccolte tematiche di proverbi scritte per Grimaldi».

Ha sempre portato i baffi?

«Da quando ho cambiato vita, cioè da quando ho lasciato la magistratura».