Laureato in medicina e chirurgia e specializzato in medicina interna, Salvatore D’Angelo (nella foto) ha fatto il master in epatologia presso la Mayo clinic di Rochester, Minnesota (Usa) e si è diplomato in Ecografia interventistica. Ha creato l’unità di epatologia interventistica presso l’azienda ospedaliera Moscati di Avellino diventandone, nel 2000, il responsabile. Nel 2002, sempre presso l’ospedale Moscati, viene istituita l’U.O. Unità di Fegato e la governance gliene affida la direzione. Attualmente lavora come libero professionista presso la Clinica Grimaldi di San Giorgio a Cremano dove ricopre il ruolo di responsabile dell’area medica e di primario della medicina e del centro delle malattie del fegato. È autore di numerose pubblicazioni scientifiche su riviste italiane e internazionali e ha partecipato a innumerevoli congressi in tutto il mondo (Stati Uniti, Repubblica popolare Cinese, Giappone, India, Cuba, Inghilterra, Germania, Francia, Spagna, Olanda, Danimarca, Svezia, Austria, Portogallo, Svizzera, Belgio ed altri paesi europei, asiatici, nordamericani, Canada e Africa) e pubblicato lavori scientifici sulle più impotanti riviste nazionali e internazionali ottenendo riconoscimenti a livello internazionale (Premio Gideon Bayer International come primo ricercatore al mondo sul Trial del Sorafenib). Socio ordinario di AISF (associazione Italiana studio Fegato - EASL (European association for the study of the liver), AASLD (American association for the study of liver disease), APASL (The asian pacific associatio for the study of the liver).

«Nasco ad Arzano, dove hanno origine i miei genitori, ma dopo pochi mesi ci trasferimmo al Vomero in via Gino Doria. Nel quartiere collinare ho trascorso tutta la mia infanzia. Ho frequentato le medie al “Viale delle Acacie” e il liceo classico al “Sannazaro”. Sono stati anni bellissimi in cui mi sono interessato di musica e teatro. Era il periodo della rivoluzione studentesca del ’68 con la radicalizzazione dello scontro sociale che a Napoli ebbe ripercussioni, oggi diremmo in tempi reali, sul teatro e, in generale, sull’arte in ogni sua declinazione. Suonavo la chitarra e calpestavo le scene del teatro d’avanguardia “Poliedro” ai Colli Aminei, gestito e diretto da Ettore Matarrese, fondatore del “Centro Sperimentale di Arte Popolare”. Spesso componevo anche musiche per le sue drammaturgie. Contemporaneamente frequentavo l’oratorio dei “Salesiani” di via Morghen, sotto l’occhio vigile di padre Di Lorenzo. È stata un’esperienza fondamentale nella mia formazione e la consiglierei a chiunque».

Perché dopo il diploma di maturità decise di iscriversi a medicina?

«Fu determinante nella mia scelta un episodio che vissi nell’ambulatorio di un medico a piazza degli Artisti. Mio padre, preoccupato per la mia eccessiva magrezza, aveva deciso di farmi sottoporre a visita medica. Quando arrivammo nell’ambulatorio trovammo un uomo che accompagnava un bambino. Era stremato dalla fatica e si era seduto su una sedia. Il dottore appena lo vite lo redarguì con durezza e gli disse: “chi ti ha autorizzato a sederti? Alzati subito”. L’uomo si imbarazzò moltissimo e con grande mortificazione si alzò prodigandosi in scuse. A questo punto il medico gli disse che poteva sedersi ma quella persona continuò a scusarsi e si rifiutò di farlo. Quell’episodio mi colpì profondamente e in quel momento decisi che avrei fatto il medico improntando il mio rapporto con ogni paziente in maniera diametralmente opposta a quella che tristemente avevo vissuto pochi momenti prima».

Terminate le Superiori mantenne l’impegno preso con se stesso e si iscrisse al Policlinico di piazza Miraglia.

«Allora la facoltà di medicina era solo lì. Successivamente sorse il Secondo Policlinico, oggi Federico II, mentre il Primo Policlinico è diventato Università Vanvitelli. Ebbi la fortuna di essere interno di un grandissimo maestro, il professore Fernando De Ritis, il luminare che ha scoperto le transaminasi. Era il responsabile della clinica medica, cioè di quella parte della medicina che si interessa di tutto ciò che non afferisce alla sfera della chirurgia. Ho avuto il raro privilegio di formarmi alla sua scuola».

Come avvenne quest’“incontro”?

«Ai miei tempi, al quarto anno i cattedratici accoglievano nel loro reparto gli “interni” cioè quegli studenti che ne facevano rischiesta e che ritenevano meritevoli di una formazione un po’ diversa. Erano considerati degli eletti ma dovevano rispondere alle aspettative del professore. Conseguentemente, oltre a seguire le lezioni e studiare per sostenere gli esami, dovevano frequentare per molte ore al giorno la clinica. Io feci parte di quel gruppo il che mi ha consentito di rafforzare molto la mia formazione».

Studio, esami, clinica, teatro, musica e oratorio. Come riusciva a conciliare questi impegni?

«Ricordo che puntualmente mia madre la notte veniva a svegliarmi perché mi addormentavo sul tavolo. Gradatamente avevo cominciato a rinunciare a qualcosa. Nell’ordine oratorio, teatro e musica. Comunque lo studio non l’ho mai visto come un grande sacrificio perché gioivo nello scoprire il funzionamento dei meccanismi del corpo umano».

Qual è stato l’esame che lo ha colpito maggiormente?

«Quello di Fisiologia che studia le funzioni vitali degli organismi viventi e che indaga sulle cause e le leggi che determinano tali fenomeni vitali. Opera su diversi livelli, occupandosi sia dei meccanismi di base a livello molecolare sia di funzioni di cellule e organi, come pure dell’integrazione delle funzioni d’organo negli organismi complessi. Mette lo studente di fronte a qualcosa di straordinario e di inimmaginabile che mi stupisce e affascina ancora oggi, a distanza di quarant’anni. Un esempio: nel nostro organismo esiste il colon dove ci sono i prodotti di risulta e dove la natura ha messo dei germi che si chiamano “commensali”. La loro finalità è quella di attaccare le feci per produrre amminoacidi aromatici che vengono metabolizzati e scissi nel fegato per formare le membrane, ghiandola annessa all’apparato digerente e caratterizza dalla “Tripla circolazione”, cioè è fornita di una doppia alimentazione di sangue. La vena porta (che è ricca di sostanze nutritive e relativamente ad alto tenore di ossigeno) fornisce due terzi del flusso sanguigno al fegato. L’arteria epatica (che è ricca di ossigeno) fornisce il resto. Questa ghiandola ha la capacità di riprodursi». Con quale tesi si laureò? «Con una tesi sperimentale su una sostanza che allora si stava studiando, gli eparinodi, cioè sostanze simil eparina, un anti coagulante la cui etimologia deriva dal greco “epar” che significa fegato. Anche la regolazione della coagulazione è determinata da questa ghiandola sia in senso trombofilico che in senso tromboembolico».

Quando iniziò a lavorare?

«Feci un corso di sei mesi chiamato tirocinio ospedaliero presso il nosocomio di Pozzuoli e conseguii l’abilitazione per sostenere il concorso di assistente ospedaliero con un altro grande della medicina, il professore Edoardo Paggi. Lo superai con un giudizio di “ottimo” e nel giudizio finale termina “…risultando un elemento di sicuro valore”. Contemporaneamente frequentavo la scuola di specializzazione in medicina interna diretta dal professore Coraggio, allievo di De Ritis. Ho iniziato a lavorare nel 1981 come assistente medico straordinario presso l’ospedale puteolano e nel 1985 divenni di ruolo con un rapporto a tempo pieno. Conseguita la specializzazione frequentai l’epatologia della Mayo clinic di Rochester, in Minnesota, e al termine ottenni il backelor, cioè la specializzazione americana equivalente alla nostra».

Poi decise di andare al Moscati di Avellino. Perché?

«Volli andare alla medicina d’urgenza per avere il contatto diretto con le patologie epatiche che all’epoca erano numerosissime. Era il periodo in cui veniva fuori l’epidemia per epatite che portava alla cirrosi, malattia degenerativa del fegato, causata da un’infiammazione cronica che ne determina alterazioni della struttura e delle funzioni. Le sue complicanze più frequenti sono le emorragie digestive e il coma epatico. L’80% delle urgenze era determinato proprio da queste patologie. Di quegli anni sono la scoperta, per merito di un ricercatore italiano dell’università di Palermo, che l’uso dei betabloccanti abbassava la pressione delle varici esofagee che si formano durante le malattie croniche del fegato impedendo che scoppiassero; i passi avanti che faceva l’endoscopia con la sclerotizzazione delle varici con mezzi chimici per bruciare la fonte delle emorragie; la scoperta intorno agli anni ’80/’82 dell’interferone con i primi approcci farmacologici per bloccare l’infezione che ha determinato la cirrosi. Di fondamentale importanza fu l’ecografia interventistica che fece praticamente scoprire le patologie epatiche perchè da mezzo diagnostico diventava mezzo operativo nel senso che permetteva di trattare i tumori del fegato che erano l’altra causa di morte. Senza aprire chirurgicamente, attraverso la sonda ecografica si visualizzava il fegato e iniziavano le prime esperienze: inserire nel tubo l’alcol per aggredire le cellule tumorali e successivamente la radiofrequenza e le microonde, le onde laser e così via».

Dopo qualche anno in medicina d’urgenza si spostò in medicina interna.

«All’epoca esistevano i moduli e per me ne crearono uno di epatologia, un mini reparto autonomo dove facevo tutto, compresi gli interventi sul fegato di cui ho parlato prima. Questo modulo nel 2002 diventò Unità Fegato, una mia “creatura”, di cui sono stato il direttore fino a dicembre del 2018 quando ho deciso di iniziare l’esperienza nel mondo privato e convenzionato».

Tanti congressi in Italia e all’estero e molti riconoscimenti. Qual è stato il più significativo per lei?

«Il premio “Mama Lena Foundation” che si dà alle eccellenze italiane nel mondo. Mi fu consegnato a Sydney per i miei studi sui tumori e, in particolare, per tre motivi: sono stato il primo a sperimentare il M.A.R.S. (Fegato artificiale) che permette al paziente su cui è stato fatto un intervento esteso di mantenere fino alla rigenerazione le funzioni dell’organo; per l’Ipertermia Capacitiva, metodica che mediante l’applicazione di campi magnetici induce un aumento di temperatura dell’organo epatico riattivando l’apoptosi e inducendo rottura di Dna delle cellule tumorali, in associazione a inibitori degli inibitori delle kinasi; per lo Shunt Peritoneo Venoso in Silastic a doppia valvola per l’ascite refrattaria del cirrotico e dopo aver conseguito nel 2013 il Premio Gideon della Bayer International come primo ricercatore al mondo del trial su Sorafenib (primo chemioterapico per i tumori del fegato non trattabili con metodiche chirurgiche o intervenzionali)».

Lasciato il Moscati cosa ha fatto?

«Chi si sottopone al giuramento di Ippocrate è medico a vita. Sono andato come consulente alla Casa di Cura Cobellis a Contrada Badia, Vallo della Lucania, e poi alla Clinica Grimaldi, dove sono tuttora il responsabile dell’area medica e il primario della medicina».

Ha scritto, tra l’altro, il libro “Avevo solo voglia di albe felici”. Qual è il suo significato?

«Rappresenta la sintesi letteraria di quella triste esperienza che da ragazzino feci nello studio del medico di Antignano. Dopo tanti anni di lavoro in un reparto di oncologia del fegato ho sentito il bisogno di scrivere una storia che raccontasse i sentimenti, le emozioni, le paure, le tragedie che ho condiviso, da medico, con i miei pazienti malati di tumore. L’ho fatto raccontandone una che mettesse insieme, nel personaggio di Luigi, il viaggio nella malattia ma, in fondo, un viaggio nella vita di ognuno di noi. Ho cercato di trasmettere le emozioni della più terribile delle lotte che gli uomini possono affrontare: quella per continuare a vivere, vedere crescere i propri figli, continuare il proprio lavoro, emozionarsi davanti alla natura, vedere ogni giorno nascere il sole, pensare di diventare vecchi. Ho raccontato anche un po’ della mia esistenza di uomo e di medico perchè anche io, come loro, ho solo voglia di albe felici, per me, per loro, per tutti».