Laureato in chimica, Sergio Roncelli (nella foto) è stato docente presso istituti superiori cittadini e presso la Facoltà di Scienze della Federico II. Delegato provinciale e regionale di varie federazioni, nel 2013 è Delegato Coni di Napoli e dal 2017 Presidente del Comitato Regionale Coni della Campania. Come atleta FITeT ha vinto titoli regionali e italiani, partecipato a numerosi campionati nazionali, e ad europei e mondiali master. Ha avuto prestigiose onorificenze Coni. «Sono napoletano di nascita ma fino al quarto anno delle scuole superiori sono vissuto fra Bergamo e Milano. Mio padre, ufficiale di Marina, conobbe mamma a Napoli e la sposò. Quando avevo pochi mesi si trasferirono nella città lombarda e gli amici lo prendevano in giro dicendogli: “ma che ci fa un marinaio in mezzo a noi che siamo tutti alpini?”. Papà era un personaggio nel vero senso della parola, varie medaglie al Valor Militare e Civile, con un carattere originale, estroso ma semplice. Un giorno rientrò a casa tutto coperto di cenere e polvere. Chiedemmo cosa gli fosse successo. Rispose che era incappato in un incidente. Il giorno dopo leggemmo sul giornale che un eroico bergamasco si era lanciato in una fabbrica in fiamme salvando alcune persone. Quando mamma morì avevo 17 anni, mi trasferii a Napoli a casa dei nonni al Vomero, dove frequentai il quinto anno di liceo scientifico alla succursale del Mercalli a via Albini».

È laureato in chimica, perché?

«È una materia che mi ha sempre affascinato. Avevo una predisposizione per quella scienza. Alla Federico II c’era un gruppo di docenti di grande qualità che rendevano la facoltà tra le migliori in Italia. Tra loro c’era il professore Corradini, l’assistente del Premio Nobel per la Chimica Giulio Natta. Quell’anno di liceo è stato molto importante perché ha segnato la mia vita da sportivo».

In che senso?

«Durante la ricreazione eravamo liberi di uscire dalla scuola e di andare nella vicina via Cilea. A quei tempi oltre al pallone e al cinema le opportunità di svago per i giovani erano le sale di bigliardo dove si giocava a stecca, calciobalilla e a ping pong. Quest’ultimo mi attirava moltissimo. Tutto il tempo libero lo dedicavo a questo gioco e in breve tempo diventai fortemente competitivo tra gli amatoriali anche più grandi ed esperti di me. Cominciò a farsi strada nella mia mente e nel mio cuore la passione per il tennistavolo che ho sviluppato nel tempo, sia a livello agonistico che dirigenziale, e che non mi ha più abbandonato».

Si può dire che l’ultimo anno di liceo scientifico è stato prodromico sia per la sua attività lavorativa che per quella sportiva?

«Proprio cosi. Da un lato ha costituito l’anticamera degli studi universitari che mi hanno consentito, dopo la laurea, di diventare docente di chimica sia nei maggiori istituti superiori che all’università. Dall’altro, contemporaneamente e in parallelo, ha rappresentato l’inizio della mia vita sportiva come agonista e come dirigente federale prima e poi del Coni».

Ci spieghi meglio questo singolare “doppio” percorso e come è riuscito a conciliare le due cose.

«Come ho detto prima, cominciando a giocare per scherzo ero diventato uno dei più forti nelle sale biliardo del Vomero. In particolare c’era l’Enal di vico Acitillo e quello di via Consalvo Carelli. Quest’ultimo era il ritrovo dei migliori pongisti vomeresi e anche di altri quartieri cittadini e della provincia. In quella sala sono nati tanti campioni, tutti prevalentemente autodidatti. Anche io ho imparato da solo guardando giocare i migliori e rubando loro “il mestiere”. Si cominciava a giocare alle 9 di sera e si finiva  oltre mezzanotte. In questo modo è stato possibile conciliare la mia attività di studente e poi quella di professore con la passione sportiva da agonista».

Nel linguaggio corrente si parla di ping pong mentre a livello federale di tennistavolo. È la stessa cosa?

«Solo apparentemente perché la differenza è sostanziale e sta nel modo di giocare, nella tipologia dei colpi, nella tecnica e nella preparazione atletica. A ping pong giocano normalmente gli amatoriali. Un ottimo amatoriale è battuto agevolmente da un mediocre agonista».

Qual era la sua “tipologia” di gioco?

«Ho sempre attaccato tutte le palle e non ho mai avuto un gioco difensivo. Il mio rovescio, poi, era famoso e molti assistevano ai miei incontri solo per vedere questo tipo di colpo. A distanza di decenni incontro ancora persone per strada che mi dicono: “ti venivo a vedere e tifavo per te”. In quegli anni c’erano anche forti difensori, in grado di prendere tutte le palle. Oggi il gioco è solo d’attacco con il top spin che si tira su tutte le palle sia di diritto che di rovescio».

Quando passò da pongista amatoriale a pongista agonista?

«Durante l’università. Erano nate a Napoli nuove società sportive di tennistavolo tutte associate al GITeT (Gruppo Italiano Tennis tavolo), una costola del tennis. Cominciai a partecipare ai campionati minori. Fui notato da una società importante del Salernitano, la Paganese, che militava in serie B. Con questa squadra ho giocato per vari anni a livello nazionale».

Qual è stato il primo campionato importante?

«Quello regionale. Credevo di essere fortissimo e mi presentai baldanzoso e sicuro di vincere. Le cose, però, andarono diversamente. Ricordo ancora la sconfitta cocente che subii da parte di  Zeppetella di Torre del Greco. Mi massacrò e io feci 2-3 punti a partita. Per un lungo periodo i miei amici mi prendevano sempre in giro apostrofandomi “zeppetella zeppetella”. L’incontrai alcuni anni dopo anni in uno scontro a eliminazione diretta per la qualificazione ai campionati italiani. Mi tolsi tutte le pietre dalla scarpa perché nel frattempo ero maturato in tutti i sensi».

Che cosa occorre per giocare bene?

«Allenarsi con continuità e costanza, innanzitutto. Questo consente di potere giocare a qualsiasi età. Durante la partita occorre mantenere sempre la massima concentrazione, essere rapidi nei colpi e avere una continua mobilità visiva. Non ho mai smesso di giocare e partecipo a tutte le manifestazioni e ai tornei per la categoria Master. Come atleta faccio parte della società Stella del Sud Napoli. Mi alleno almeno due volte a settimana. Mi sono adattato con l’evoluzione che il gioco ha avuto, anche se ovviamente non sono più ai livelli di quando ero giovane, però sono sempre competitivo nella mia categoria. Sei anni fa partecipai ai mondiali dei veterani in Svezia e vinsi il mio girone battendo un russo, uno svedese, un indiano e un cecoslovacco nel turno successivo. Nella mia categoria partecipavano 700 persone da tutto il mondo e io mi classificai al 50esimo posto che, a livello di sport singolo, è un buon risultato. Tuttora, quando gioco, non c’è nulla al mondo che mi possa distrarre: esisto io, l’avversario e la pallina».

Ha un segreto?

«Più che un segreto è una qualità del mio carattere: sono testardo. Ricordo come esempio un incontro di un torneo nazionale a Reggio Calabria. Giocavo contro un avversario molto forte che era anche un idolo locale. Perdevo 10 a 2 al quinto set e la partita finiva a 11. Da quel momento non persi più un punto e vinsi per 12 a 10. Mia moglie era andata via dalla sala sicura della mia sconfitta, ma fu richiamata da un mormorio crescente di stupore e disappunto e mi vide abbracciato dal mio team. Da quel momento non mi ha più accompagnato perché mi disse di non essere in grado di sopportare simili emozioni. Oggi, in tono minore, accadono cose simili e quando sono in svantaggio gli amici dicono: “tranquilli tanto alla fine vince Sergio”».

Quando è iniziata la sua carriera dirigenziale?

«Nel 1970 come vice presidente regionale GITeT. Da quel momento ho avuto sempre incarichi regionali e nazionali che sono continuati anche quando, nel 1979, il tennis tavolo è diventato una federazione autonoma (FITeT) e due anni dopo fui eletto presidente provinciale».

Il 1980 è stato anche l’anno in cui ha iniziato la sua carriera nel Coni.

«La sede era a Santa Maria degli Angeli, a Montedidio. Ho fatto tutta la gavetta nel Coni Napoli fino alla carica di Delegato Coni di Napoli. Contemporaneamente sono stato delegato provinciale e poi regionale delle federazioni Tennistavolo e Hockey su Prato. Quando nel 2017 sono stato eletto presidente del Comitato Regionale Coni della Campania ho dovuto rinunciare agli altri incarichi per incompatibilità. Sono sempre riuscito a conciliare gli impegni di docente con quelli di dirigente sportivo perché avevo una grande “mobilità”».

In che senso?

«Mi spostavo utilizzando una Vespa 150 acquistata nel 1983, con la quale ho percorso oltre 170mila chilometri. È la stessa che uso ancora oggi».

Il suo mandato scade l’anno prossimo. In questo triennio qual è stato il risultato più prestigioso che porta la sua “firma”?

«L’organizzazione delle Universiadi dello scorso anno. Sono state la più grande manifestazione sportiva che si è svolta in Campania da sempre, con la partecipazione di 118 nazioni e di oltre 6.000 atleti. Il presidente nazionale del Coni, Giovanni Malagò, mi nominò responsabile dell’evento la cui riuscita era, al di fuori della regione, messa in dubbio da molti. Quando fu nominata l’ultima cabina di regia nel settembre del 2018, mancavano 10 mesi all’inaugurazione. In questo brevissimo lasso di tempo è stato fatto tutto quanto necessario per essere pronti. La nostra parte consisteva nell’assicurare il coordinamento fra tutte le federazioni per sovrintendere all’organizzazione tecnica dei giochi e, soprattutto, garantire il rispetto delle normative Coni di tutti gli impianti sportivi. Gli interventi sugli impianti dovevano avere il mio parere favorevole. Tutto ciò è stato possibile grazie alle grandi capacità degli ingegneri del Servizio Impianti Sportivi del Comitato che presiedo».

Quale “eredità” ha ricevuto dalle Universiadi?

«Un grande patrimonio che si articola su due direttrici. La prima riguarda gli impianti sportivi messi a posto e che sono all’avanguardia a livello nazionale ed internazionale. Quest’anno il Golden Gala di atletica, che si è sempre fatto a Roma, si svolgerà a Napoli il 28 maggio allo stadio San Paolo perché la Capitale è impegnata per gli europei di calcio. Si era proposta Milano, ma è stata preferita Napoli. Il 2020 è anno olimpico perché a giugno i Giochi si terranno a Tokyo. Vi parteciperanno molti degli atleti che faranno il Golden Gala. L’altra direttrice riguarda i volontari sportivi, circa 5.000 giovani che hanno lavorato alle Universiadi acquisendo un’esperienza e una professionalità unica. È un patrimonio che va utilizzato e tutelato perché questi giovani rappresentano il futuro dello sport. Stiamo organizzando corsi di management sportivo che partiranno entro la fine di questo mese, rivolti esclusivamente a questi volontari. Il gruppo che li ha gestiti farà una preselezione e ci manderà i più meritevoli».

Quali sono i prossimi impegni della sua presidenza?

«Assistere le federazioni nell’organizzazione di eventi nazionali e internazionali. Fra i tanti, oltre al Golden Gala, ricordo a giugno al PalaVesuvio gli assoluti italiani di scherma. Anche in questo caso gareggeranno atleti che poi vedremo a Tokio. Altro importante impegno è quello di affiancare le varie istituzioni nella messa a bando degli impianti alle Federazioni ed alle Società Sportive. Dobbiamo tutelare e conservare nel tempo questo grande patrimonio di strutture sportive».