Fotoreporter del “Mattino”, Sergio Siano (nella foto) è autore di diversi progetti editoriali. La sua opera prima è “Il mare non bagna Napoli”, con contributi di amici scrittori e giornalisti tra cui Maurizio De Giovanni, Stella Cervasio, Vittorio Del Tufo, Benedetta Palmieri, Federico Vacalebre, Pietro Gargano, Pietro Treccagnoli, Antonio Emanuele Piedimonte, Antonella Cilento, Francesco De Luca, Gigi Di Fiore. Tra gli altri libri ci sono “Quartieri Spagnoli” realizzato con Pietro Treccagnoli; “Vicoli, un viaggio Napoletano”; “Con gli occhi di Caravaggio” realizzato con Francesco De Core; “Napoli com’era e com’è” in cui mette a confronto foto di zone della città fatte nell’800 con foto delle stesse zone scattate ai giorni nostri. Nel libro c’è anche una fotografia su doppia pagina scattata dal nonno, Riccardo, quando lavorava con i fratelli Troncone. “Maradona”, è il suo bestseller. Insieme al fratello Riccardo ha realizzato due esperienze fotografiche: una sui Campi Flegrei e l’altra sul Miglio d’Oro. Da cinque anni, ogni domenica sul “Mattino”, firma insieme a Vittorio Del Tufo la rubrica “L’uovo di Virgilio”. Sono stati realizzati da Rogiosi Editore due libri di raccolta degli articoli ed è in lavorazione il terzo.

«Sono nato in una famiglia napoletana di fotoreporter. Lo era mio nonno Riccardo, mio padre Mario e lo è mio fratello maggiore Riccardo. Con lui ho cominciato a imparare questo splendido mestiere quando avevo sedici anni, nel neonato quotidiano “Il Giornale di Napoli” fondato nel 1985 da Orazio Mazzoni. Si cominciava alle sei del mattino per poi correre al piccolo laboratorio di via dei Fiorentini per sviluppare le foto che servivano per l’edizione delle ore 13. Ho affrontato fin dal primo momento il lavoro con un animus professionale, conscio che non esisteva una scuola per fotoreporter né testi su cui studiare e che l’unico modo per imparare era la pratica. In quel periodo l’attenzione dei media cittadini era concentrata sui fatti di cronaca nera e su Maradona che si era presentato al popolo napoletano allo stadio San Paolo l’indimenticabile 5 luglio 1984. In redazione conobbi anche l’attuale direttore del “Roma”, Antonio Sasso. Aveva una marcia in più ed era, com’è, un giornalista a tutto tondo. Capiva l’importanza fondamentale della fotografia e quando gliene presentavo qualcuna che per lui non “raccontava” bene l’evento, non esitava a strapparmela davanti. Non me la sono mai presa perché capivo che erano insegnamenti preziosi per la mia formazione e e gliene sono sinceramente grato».

Quanto tempo è durato il suo apprendistato con Riccardo?

«Non c’è mai stato perché la fotografia era nel mio dna tanto è vero che dopo solo due mesi mio fratello si concedette, per la prima volta, una settimana di ferie e mi affidò tutto il lavoro perché aveva piena fiducia nelle mie capacità e nel mio senso di responsabilità. Mi sentivo pronto, consapevole che quel “mestiere” non conosce orari, che non consente un distinguo tra la vita lavorativa e quella privata e che non può essere condizionato dal guadagno. L’impatto, comunque, fu molto forte».

Perché?

«In quella settimana di agosto accaddero fatti che mi turbarono molto. In particolare, ricordo il tragico incidente stradale sull’autostrada Napoli-Roma nel quale perse la vita un’intera famiglia di turisti stranieri composta da padre, madre e figli piccoli. Appena avuta la notizia insieme al compianto Carmine Spadafora e a Beatrice Ruocco corremmo sul posto. Vedemmo uno spettacolo che ci atterrì perché un Tir aveva letteralmente schiacciato il pulmino sul quale viaggiava la famiglia riducendolo ad un ammasso di lamiere accartocciate. Le immagini dei corpi dilaniati, soprattutto quelli dei bambini, rimasero a lungo impresse nella mia mente e l’“odore” di morte che sentii non mi fece mangiare per per tre giorni. Eppure ero abituato a fotografare morti ammazzati, ma quell’incidente fu un’esperienza terribile. Un altro evento che mi scosse molto fu la protesta dei terremotati davanti alla Prefettura. Passarono la notte all’addiaccio in piazza del Plebiscito e li fotografai a tutte le ore cogliendo nei loro sguardi la disperazione di chi aveva perso tutto e che viveva, a distanza di anni, ancora in condizioni di estrema precarietà».

Non ha fatto apprendistato, ma avrà avuto dei punti di riferimento?

«Ho avuto quattro maestri nella vita e nella professione che io chiamo “i quattro padri”: mio padre Mario, Antonio Troncone, Guglielmo Esposito e Peppino Di Laurenzio. Purtroppo ci hanno lasciato tutti. Fondarono l’agenzia Foto Sud che faceva servizi fotografici per il “Mattino” e “Sport Sud”. Avevano bisogno di aiuto e, nel 1986, cominciai a collaborare anche con loro. Per quanto riguarda la parte artistica ho prestato particolare attenzione ai maestri della pittura, primo fra tutti Michelangelo. Osservando i suoi capolavori ho approfondito il concetto di prospettiva, quello dell’angolazione e ho perfezionato la comprensione della luce, ingrediente essenziale per la fotografia».

Durante il servizio militare ha fatto un’esperienza particolare. Quale?

«Sono stato il fotografo dello Stato Maggiore dell’Esercito. Ero di stanza a Roma e mi sono specializzato in fotografia aerea. Operavo dagli elicotteri e fotografavo manifestazioni tra cui i campionati militari di atletica leggera. Quando tornavo a Napoli in licenza continuavo a lavorare».

La leva è stata anche l’occasione per momenti di riflessione “esistenziale”.

«Al mio rientro definitivo a casa ho attraversato un periodo in cui avrei desiderato viaggiare, spaziare e ampliare i miei orizzonti. Avevo riflettuto che, avendo iniziato a lavorare molto presto, non avevo vissuto le esperienze dell’adolescenza e volevo recuperare quella parte di vita di cui mi ero privato. La crisi però passò e su quel desiderio prevalsero ancora una volta l’amore viscerale per la mia città e l’affetto profondo che mi legava ai “quattro padri”. Se mi fossi allontanato avremmo sofferto tutti».

Nel 1987 iniziò a lavorare per il “Mattino”.

«Lasciai definitivamente “Il Giornale di Napoli”, grande palestra di esperienza e di formazione, e cominciai a lavorare col “Mattino”, sempre con l’agenzia Foto Sud. Mi ero guadagnato la fiducia del titolare ed ero considerato uno di loro».

Quando le è venuto il desiderio di raccontare Napoli attraverso le fotografie?

«Il mio lavoro per me è tutto: scuola, esperienza, lezioni quotidiane di vita, sempre nuove, uniche e irripetibili che mi hanno fatto conoscere Napoli in tutte le sue stratificazioni storiche, sociali ed economiche. Questo processo continua perché c’è tanto ancora da scoprire e da apprendere. Più vedo, più scopro e più aumenta l’amore per il mio territorio al punto che considero i vari quartieri cittadini come figli miei condividendone gioie e dolori. Quello che mi intenerisce di più è Forcella perché è fragile e troppo spesso indifeso. Mi resi conto che la nostra città esprime a tutti i livelli molte positività. Ma per una strana alchimia non si riesce a metterle insieme, a fare sistema per contrastare e debellare le negatività che invece si coalizzano risultando troppo spesso vincenti. Allora decisi di raccontarle queste positività attraverso la fotografia e nel 2009 feci un progetto editoriale».

Quale?

«Si sarebbe dovuto chiamare “La leggenda di un bacio”. Aveva come protagonisti due simboli di positività molto forti per Napoli: Virgilio e Partenope. Il loro bacio avrebbe rappresentato la vittoria sulla maledizione che secondo la leggenda incombeva sulla città. Ma il progetto non andò in porto perché ancora una volta le “positività” non riuscirono a unirsi tra di loro. Ma il seme era stato piantato».

In che senso?

«Nel 2013 Rogiosi Editore ha pubblicato “Il mare che bagna Napoli”, la mia opera prima che, come tutti gli altri libri usciti in seguito, è figlia di “Leggenda di un bacio”. Si riferisce al capolavoro di Annamaria Ortese nel quale la scrittrice romana in cinque racconti fa una denuncia molto forte che scatenò pesanti accuse da parte di intellettuali e politici partenopei che ritennero che la sua opera fosse stata scritta per screditare volutamente Napoli in ogni suo aspetto. Ho eliminato la sua negazione e mando il messaggio che ciascuno di noi, invece di puntare il dito contro altri, deve prendersi cura della città. Il libro si basa su un’insieme di esperienze che ho fatto e sulle quali ho progettato un viaggio “cittadino”. Mi sono avvalso della collaborazione di amici scrittori e giornalisti. Un esempio di denuncia che faccio è contenuta nelle foto delle statue che sono silhouette in controluce perché non c’è una targhetta che indichi chi rappresentino. Questo accade per i busti della Villa Comunale come per la statua di Salvator Rosa che si trova a piazza Francesco Muzii, all’Arenella, dove sorgeva la palazzina nella quale era nato il pittore che poi fu demolita. Eppure nel preventivo del costo dei lavori per il rifacimento della piazza l’amministrazione comunale avrebbe potuto tranquillamente prevedere la modesta spesa per una targa con il nome dell’artista! Un giorno, indicando la statua, chiesi a dei vigili urbani chi rappresentasse e, con mio stupore, mi risposero che non lo sapevano».

Grande successo ha riscosso il libro “Maradona”. Quando conobbe l’asso argentino?

«Il 5 luglio del 1984 ero sugli spalti della Curva A, emozionato e felice. Non avrei mai immaginato che l’anno successivo lo avrei conosciuto di persona e fotografato al Centro Paradiso e sul terreno di gioco di Fuorigrotta e che Luciano De Crescenzo e Gianni de Bury avrebbero scelto una mia fotografia come copertina del loro libro “La domenica del villaggio”, scritto sul Pibe de Oro nel 1987».

Com’era il rapporto tra voi due?

«Molto bello, di rispetto e stima reciproca. Lasciava gli allenamenti al Centro Paradiso per ultimo e io con discrezione lo aspettavo cogliendo con il mio obiettivo anche i momenti in cui, palleggiando, rifletteva su se stesso e sulla sua vita rivelando in quei minuti di solitudine e a riflettori spenti tutta la sua umanità: quello era il vero Diego Armando Maradona e quella era la sua naturale dimensione. È stato il capitano della città non della squadra e alfiere del nostro riscatto».

Perché ha realizzato il libro dopo tanto tempo, nel 2018?

«Il mio “Maradona” è nato da una domanda che mi fece il titolare della casa editrice Intra Moenia, Attilio Wanderling. Mi disse: “Come mai non hai fatto un libro su Maradona?”. Gli risposi che non lo avevo realizzato perché mi sembrava di fare un lavoro sulla mia famiglia. Attilio fu molto persuasivo e mi convinse che sbagliavo. Gli dissi che lo avrei fatto solo a condizione che il prezzo di copertina sarebbe stato basso per renderlo accessibile a tutti e con fotografie in bianco e nero. L’editore accettò e raccolsi 160 scatti in cui ritraevo Diego anche in contrasti di gioco con i più grandi calciatori di quegli anni che militavano nel campionato italiano. In questo modo davo il giusto risalto non solo a lui ma anche ai beniamini di altre tifoserie. Mi hanno scritto da tutto il mondo e più di una persona mi ha riferito che Maradona teneva il libro sulla sua scrivania. Questa notizia è stata una grande gratificazione».

Ama Napoli e fotografa la sua storia. Pensa che i napoletani la conoscano a sufficienza?

«No, e per questo motivo non perdo mai l’occasione di lanciare un appello affinché nelle scuole inferiori venga insegnata la storia di Napoli, in maniera semplice e comprensibile. Solo in questo modo i ragazzi possono conosce le loro radici, amarle, rispettarle, proteggerle e tramandarle alle generazioni future, nella consapevolezza che la nostra città è il riflesso del mondo, perché tutto il mondo è stato qui e ci ha lasciato una sua identità».

Attualmente su quale progetto sta lavorando?

«È nata una splendida collaborazione con Yvonne De Rosa, ideatrice di Magazzini Fotografici. È uno spazio no profit che ha come obiettivo la divulgazione della fotografia finalizzata alla creazione di un dialogo che sia occasione di scambio e di arricchimento culturale. Due anni fa abbiamo organizzato a Londra, all’Istituto Italiano di Cultura, una mostra su Maradona. Stiamo lavorando per realizzarla a Napoli con un gande evento il prossimo 10 maggio, data che coincide con il primo scudetto del Napoli. Speriamo che la pandemia ce lo consenta. Cerchiamo un luogo che possa ospitarla degnamente».

Qual è stata la sua prima macchina fotografica?

«Una Nikon FM tutta meccanica. La conservo gelosamente».