Avvocato matrimonialista con studio al Vomero, in via Scarlatti nell’ominima galleria, Valentina De Giovanni (nella foto) è componente del direttivo nazionale e della giunta dell’Ami, Associazione Avvocati Matrimonialisti Italiani, ed è presidente del Distretto di Napoli. Ha praticato nuoto agonistico nello stile delfino al circolo Posillipo e al Collana. È assidua lettrice e sincera ammiratrice dei libri scritti dal fratello Maurizio. Ama i cani e Macchia, una dolce meticcia, è la fedele compagna delle sue lunghe passeggiate, anche se protesta un poco nei tratti in salita.

«Sono figlia di un avvocato civilista, esperto in contrattualistica, che esercitava con passione la professione. Si chiamava Giovanni De Giovanni ma per tutti era Gianni. Lo abbiamo perso quando avevo 16 anni. Mamma, Edda De Ruggiero, era maestra elementare e ci ha lasciato circa due mesi fa. Mi dicono che quando nacqui mio padre fu particolarmente felice perché dopo due maschi, Maurizio e Fabrizio, finalmente era arrivata una femminuccia. Abitavamo a via Tasso e le elementari iniziai a farle al Pontano, sulle orme dei miei fratelli. Eravamo conosciuti dai padri gesuiti perché un nostro zio era stato il primo rettore dell’Istituto. In classe avevo solo altre quattro compagne e stavamo in mezzo a trenta maschietti. Durante la ricreazione giocavo a pallone con loro nel cortile. Ricoprivo il ruolo di terzino. Ero brava perché mi esercitavo a casa con i miei fratelli con i quali condividevo tutti i loro giochi. In particolare il precursore del subbuteo. Utilizzavamo le fiches da poker sulle quali Maurizio e Fabrizio incollavano i colori delle varie squadre. Tutti in casa siamo sempre stati tifosi sfegatati del Napoli a livello patologio, a partire da papà. Ricordo che quando fu acquistato Maradona i miei fratelli mi regalarono l’abbonamente per lo stadio. Ero la mascotte della loro comitiva di “ammalati”. Maurizio dice sempre che anche io avevo preso il colorito giallognolo che deriva dall’essere supporter viscerale della nostra squadra. Per un periodo frequentai il Suor Orsola Benincarsa, proprio di fronte all’Istituto dei padri gesuiti, perché era una scuola esclusivamente femminile. Dal pallone passai al ricamo. Quando papà morì ritornai al Pontano per stare vicino a Maurizio e Fabrizio. Ci sono rimasta fino alla maturità classica».

Perché si iscrisse a giurisprudenza?

«Giurai a papà sul letto di morte che avrei fatto l’avvocato come lo era stato lui e nonno Maurizio. Evidentemente ero una predestinata e avevo la passione per questa professione nel dna ma non lo sapevo ancora. Mamma, che ha svolto il suo duplice ruolo genitoriale da grande donna qual era, mi ha sempre sostenuto in questa decisione. Mi chiamava “il mio piccolo guerriero” e vedeva in me la realizzazione del suo sogno di avere un figlio che seguisse le orme paterne. Diceva che chi di noi avesse fatto l’avvocato avrebbe ereditato l’arredamento dello studio che da nonno era passato a papà. Oggi lavoro con orgoglio dietro quell’antica scrivania che sulla parte anteriore ha intagliata la bilancia, simbolo della Giustizia. Di fronte c’è la libreria piena di libri antichi di diritto e alle spalle, incorniciate, le tre lauree in giurisprudenza dei De Giovanni: quella di nonno, quella di papà e la mia».

Come è stato il suo percorso universitario?

«Difficile, perché ho sempre voluto lavorare. Mamma non ci faceva mancare nulla ma a me dispiaceva essere la studentessa mantenuta dai suoi e volevo contribuire, anche se in minima parte all’economia familiare. Ho sempre fatto lavoretti di ogni genere e queste esperienze sono state importanti per la mia formazione». Qualche esempio di studentessa lavoratrice? «Ai tempi della Fiera della Casa ho fatto la collaboratrice part time in una galleria d’arte. Poi fui assunta. É stato un periodo particolarmente significativo perché mi sono arricchita molto culturalmente. Ho anche impartito lezioni private e ho lavorato presso lo studio di mio fratello Fabrizio che aveva un’impresa di costruzioni e altro ancora».

Dopo la laurea, l’esame di abilitazione come avvocato superato al primo tentativo. Che indirizzo scelse?

«Da neo avvocato, durante le vacanze estive nella nostra dimora cilentana, mi innamorai follemente di un giovane di Sapri. Era un penalista più “anziano” e si chiamava Gregorio La Rocca. Ci sposammo e per una scelta d’amore mi trasferii nella sua cittadina: non l’avrebbe mai abbandonata! Facevo la spola ogni giorno tra Sapri e Salerno. Già allora ero molto attenta ai problemi delle donne e iniziai a collaborare con uno studio di Salerno dove c’era una collega che si occupava di diritto di famiglia. Faceva consulenza anche per un’associazione di sostegno alle donne e io la seguii in questa iniziativa. Afffrontando i casi di separazione vedevo la sofferenza delle persone e scoprii che in quella parte del diritto di famiglia c’erano risvolti umani assenti negli altri settori del diritto. Il mio interesse diventò ben presto passione e decisi di fare l’avvocato matrimonialista».

Intanto era ritornata a Napoli.

«Era difficile adattarsi alla vita di un piccolo centro come Sapri. Mi fermavo due, tre giorni a Napoli e poi rientravo con grandi sacrifici perché le distnze sono notevoli. Gregorio era un uomo molto intelligente e aveva capito che io, con lui o senza di lui, avrei seguito la mia strada perché il trasferimento nella mia città era importante, come lo è stato, anche per il futuro de nostri due figli Caterina ed Emiliano che allora erano piccoli. Oggi hanno rispettivamente 22 e 17 anni. L’ho perduto prematuramente due anni fa ed è stato un dolore molto grande. Ma sta sempre con me e, quindi, non lo perderò mai».

Un momento importante nella sua vita professionale è stato l’incontro con l’avvocato Gian Ettore Gassani, Perché?

«Quando lo contattai stava per lasciare l’associazione che presiedeva a Salerno e che si occupava di diritto di famiglia, ed era in procinto di fondarne un’altra indipendente. Aveva avuto la grande intuizione che il diritto di famiglia non è una materia che può essere avulsa dall’interazione con altre discipline e altri ambiti, per esempio la psicologia, il mondo della scuola, le forze dell’ordine, i carabinieri, gli assistenti sociali. Insieme a lui e a un gruppo di colleghi salernitani decidemmo, quindi, di fondare l’Associazione Matrimonialisti Italiani, Ami, di cui Gian Ettore è il presidente nazionale. Io sono socio fondatore, componente del direttivo e della giunta esecutiva nazionale e presidente del distretto di Napoli. Per gli incastri della vita si era chiuso il cerchio e mi trasferii definitivamente a Napoli».

Di che cosa si occupa l’Ami?

«Scopo primario dell’associazione è la formazione professionale multidisciplinare, sia di base che di aggiornamento professionale. Un progetto ambizioso, da portare in tutta Italia, attraverso l’impegno di tante professionalità e di tante energie. Ha sedi distrettuali in tutte le Corti di Appello e può avere sedi territoriali (circondario del Tribunale di appartenenza) con un gruppo locale che segue le direttive della sezione distrettuale. È prevista l’iscrizione, quali soci sostenitori, di psicologi, medici psichiatri, mediatori familiari, sociologi, pedagogisti, assistenti sociali e insegnanti. Questi ultimi possono partecipare alla vita dell’associazione, alle commissioni e ai gruppi di studio che ogni sezione organizza. La finalità è, dunque, quella della creazione di un lavoro di equipe, di un “linguaggio comune” tra le varie esperienze professionali. È una delle poche che ha il riconoscimento da parte dell’Ordine Nazionale Forense».

Come presidente del distretto di Napoli qual è stata la sua prima iniziativa?

«Ho avuto l’idea di avvicinare il mondo della cultura a quello del diritto. In occasione del primo convegno che ho organizzato a Napoli, dal titolo “La famiglia oltre la separazione”, chiesi a Maurizio di scrivere la sua esperienza di padre separato. L’ha fatto come sa fare lui e ha scritto un racconto bellissimo. L’auditorium del tribunale di Napoli era gremito di colleghi e magistrati e, quando in chiusura mio fratello ha letto il suo lavoro si sono commossi tutti. Da quel momento la mia iniziativa si è estesa in tutti i distretti. Sul piano organizzativo, poi, ho nominato, con un criterio fiduciario, dei responsabili territoriali in ogni tribunale della Corte di Appello. Anche loro a livello territoriale svolgono la stessa attività per migliorare questo mondo».

Quel convegno contiene un suo credo fondamentale. Quale?

«Nel corso della mia professione ho capito che se due genitori separati riescono a rimanere uniti nella loro funzione genitoriale la famiglia può ancora resistere».

Nella nostra contemporaneità c’è ancora la voglia di mantenere in vita un matrimonio?

«La forza che c’era prima nell’andare avanti nel matrimonio oggi non c’è più. Viviamo in un mondo più egocentrico e le persone non sono tanto disposte a sacrificare se stesse o parte dei propri desideri per un progetto famiglia. Questa, quindi, non regge e quando accade è terribile sia per il mondo femminile che per il mondo maschile. Le donne si ritrovano molto spesso con il problema dell’autonomia economica, faccio riferimento in particolare al Sud, e quindi con necessità di andare avanti anche con importi bassi perché non sempre possono avere assegni di mantenimento dei figli di un certo rilievo. L’uomo dal canto suo, quando subisce la separazione, è veramente vittima di una forte violenza. Deve fare le valigie e se ne deve andare da casa sua perché la casa resta assegnata ai figli e questi stanno quasi sempre con la madre. Magari ha fatto un mutuo che deve pagare».

Cosa pensa dell’affidamento condiviso?

«Lo scopo di questo istituto, previsto da una legge del 2006 e fortemente voluto dai padri separati, era quello di garantire ai figli la fattiva presenza di entrambe le figure genitoriali con conseguente corresponsabilità di padre e madre nella loro crescita. Non c’è più potestà ed è bello perché si tratta di responsabilità e non di un potere nei confronti dei figli. I termini sono molto importanti e il potere della parola è fondamentale e dovrebbe avere una funzione educativa. Ma in concreto l’obiettivo non è stato raggiunto. Prevaletemente nel nostro territorio, l’affidamento condiviso si traduce nell’80% dei casi in affidamento esclusivo alla madre con previsione di un assegno di mantenimento che deve essere corrisposto dal genitore che non vive con il minore. Lo Stato continua a legiferare in questa materia con riforme a costo zero mentre andrebbero stanziati più fondi per i servizi sociali che sono assolutamente insufficienti e carenti. Il loro compito è sostenere la coppia alla fine del rapporto e non solo i figli. Eppure si parla tanto di sostegno alla genitorialità. Pochi, troppo pochi possono sostenerne i costi privatamente. La famiglia è la base della società: lo dice la nostra Costituzione. Ma, purtroppo, il legislatore lo ha dimenticato».

Cosa occorerebbe fare?

«Dedicarsi di più alle problematiche della famiglia e lavorare molto sulla cultura, sulla formazione e la sensibilizzazione di tutti gli “addetti ai lavori” a partire dagli avvocati passando per gli operatori dei servizi sociali, le forze dell’ordine, per finire ai magistrati. È necessario aiutare le parti a individuare soluzioni condivise con obiettività senza pregiudizi o preconcetti e monitorare per prevenire e fare emergere abusi. Ma per realizzare questo occorrono fondi e bisogna investire. Allora dico con fermezza allo Stato che è ora di finirla con le riforme a costo zero».