Laureato in Medicina e Chirurgia con il massimo dei voti, Bruno Zuccarelli (nella foto) è specialista in malattie dell’apparato cardiovascolare, in ematologia e in Scienze dell’alimentazione. È il direttore della Medicina trasfusionale dell’ospedale Monaldi e dal 2016 è il capo dipartimento di tutti i centri trasfusionali degli ospedali di Napoli. È il presidente dell’Ordine dei medici di Napoli per il quadriennio 2021/24. È autore di oltre 50 pubblicazioni scientifiche su riviste nazionali ed internazionali. È Dirigente dell’Anaoo Assomed dal 1982 ed è dal 2018 vice segretario nazionale. «Sono napoletano e dagli inizi degli anni ’50 abito al Vomero, al corso Europa quando tutt’intorno c’era ancora tanta campagna. Le elementari le ho frequentate all’istituto Froebeliano, e ricordo quando di prima mattina il pulmino mi veniva a prendere sotto casa per portarmi a scuola in via Stella. Dopo le medie alla Roberto Bracco e il IV ginnasio al Sannazaro, mi iscrissi al liceo classico Genovesi a piazza del Gesù. Il mio desiderio era quello di fare il giornalista ma mio padre, professore di latino e greco al liceo Umberto e poi docente all’ateneo Suor Orsola Benincasa, mi fece presente che con quel lavoro solo pochi riuscivano ad arrivare ai vertici. Allora “ripiegai” su medicina».

Perché proprio questa facoltà?

«Non avevo medici in famiglia da emulare ma mi lasciai coinvolgere dal boom di iscritti negli anni ’71/’72. Il primo anno lo feci al I Policlinico, oggi Luigi Vanvitelli, poi mi trasferii al II Policlinico, l’attuale Azienda Ospedaliera Universitaria Federico II, partecipando con entusiasmo alla grande sfida che il nuovo complesso ospedaliero, appena ultimato, si accingeva ad affrontare. La cittadella universitaria era una realtà stile “campus americano”: numerose aule, lezioni che non richiedevano corse affannose per accaparrarsi un posto, e poi tanto verde. Era piacevole e produttivo trattenersi anche nelle ore pomeridiane per studiare comodamente e senza stress».

Al quarto anno dovette iniziare il tirocinio obbligatorio, propedeutico alla richiesta della tesi di laurea. Quale scelse?

«Non avevo le idee chiare e non avevo nessuno che potesse prendermi per mano e immettermi sulla strada più consona alle attitudini che avevo manifestato negli studi fatti fino a quel momento. Una scelta di pancia mi spingeva verso ginecologia ma poi optai per cardiologia. Girai anche per i reparti di chirurgia generale, ostetricia, patologia medica e patologia chirurgica. Cominciai a fare conoscenze con colleghi e in particolare legai molto con Maurizio De Palma. Studiavamo insieme e lui, a differenza mia, aveva già un orientamento perché un suo parente era chirurgo. È diventato primario di chirurgia al Cardarelli».

Come mai cardiologia?

«Era più facile ottenere una tesi in quella branca medica perché c’erano maggiori disponibilità. Mi sono laureato nel 1978 e il mio relatore è stato il professore Mario Condorelli e il correlatore il professore Giuseppe Zannini, all’ora preside della facoltà. La seduta di laurea si tenne nell’austerità dell’Aula Magna dove sono ritornato con grande emozione pochi mesi fa a fare lezione sull’etica a 600 studenti. Dopo la laurea mi iscrissi alla scuola di specializzazione in cardiologia, diretta dal professore Condorelli. Nel frattempo iniziai una gavetta dura facendo di tutto e di più».

Cioè?

«Ho cominciato come medico di medicina generale, con pochi assistiti, quindi come medico prelevatore, ancora come guardia medica. Quest’ultima esperienza è stata la più importante perché l’ho fatta in pieno terremoto dell’80 e per buona parte dell’81. Nell’anno del sisma partì la sperimentazione della guardia medica regionale che era stata preceduta da un prototipo gestito dal Comune. La nostra sede era a via Tarantino, di fronte al cinema Acacia dove c’era il Comando dei vigili urbani. Avevamo competenza sui quartieri Vomero-Arenella, Chiaiano, Stella e San Carlo all’Arena. Un centralino smistava le telefonate e avevamo a disposizione un parco auto formato da veicoli dei vigili urbani e da alcuni taxi. Era un servizio di primo soccorso antesignano di quello in “codice rosso” del 118, nato come primo nucleo a Bologna in occasione dei mondiali di calcio del 1990. Ho avuto modo di entrare in abitazioni dove regnavano realtà di degrado, di povertà, di vulnerabilità sociale inimmaginabili che altrimenti non avrei mai potuto conoscere. È stata un’esperienza forte e formativa perché qualcuno mi ha insegnato che un domani per comandare bisogna saper fare tutto».

Contemporaneamente seguiva la scuola di Condorelli.

«Dopo il primo anno interruppi la frequenza per un avvenimento assolutamente imprevedibile, una sliding doors, che ha cambiato la mia vita professionale».

Cosa accadde?

«Una sera venne a casa un medico che accompagnava la moglie perché aveva bisogno di parlare con mio padre. Papà mi chiamò e me li presentò. Il medico era il professore Corrado Perricone, allora aiuto in immunoematologia all’ospedale Pausillipon il cui primario era il professore Faiella. Mi propose di andare a fare il tirocinio nel suo reparto. Quella pratica era indispensabile per potere partecipare a un concorso pubblico in un’azienda ospedaliera. Ne avevo già fatto uno in medicina generale al Fatebenefratelli, ma accettai perché tra me e l’immunoematologo nacque un’immediata empatia. Cominciai a coltivare quella branca e l’interesse ben presto si trasformò in passione perché mi entrò nel cuore. Terminato il tirocinio partecipai ad avvisi pubblici e vinsi quello bandito dal Cardarelli dove presi servizio il 31 ottobre 1981. Lasciai in stand-by la specializzazione in cardiologia perché pensai che non dovesse servirmi. La ripresi in seguito e la portai a termine qualche anno dopo».

Meno di un anno dopo andò al Pausillipon. Per quale ragione?

«Sentimentale soprattutto, perché il primo amore, come si sa, non si scorda mai. Quando il Pausillipon bandì un concorso Corrado Perricone mi informò. Partecipai, lo vinsi, lasciai il Cardarelli e il 9 agosto del 1982 entrai al Pausillipon nel reparto di immunoematologia».

Quando tempo è rimasto nel nosocomio pediatrico?

«Fino al 30 settembre del 1991 perché vinsi il concorso di aiuto all’ospedale Nuovo Pellegrini, l’attuale San Giovanni Bosco, nel reparto trasfusionale di immunoematologia. Precedentemente c’era stata una parentesi di “comando” al Comune di Napoli per fare uno screening per l’epatite B sugli operatori ecologici in quanto in quel periodo facevano la raccolta delle siringhe dei drogati e dei tossicodipendenti. Fu un’esperienza utile per farmi conoscere il funzionamento della macchina amministrativa del Comune».

Sono gli anni in cui entrò per la prima volta nel Consiglio dell’Ordine dei medici di Napoli.

«Venivo da un’esperienza sindacale con l’Anaao. L’anima del “barricadero” emerse nel 1978 quando mobilitammo una quarantina di colleghi perché non volevano darci le casse mutue e occupammo simbolicamente la sede dell’Ordine dei medici. Parlammo con il presidente Ferruccio De Lorenzo e risolvemmo l’impasse a nostro favore. Quando nel 1985 io e il mio amico Maurizio De Palma fondammo la rivista medico-scientifica “Quaderni di medicina e chirurgia”, decidemmo di offrirne la presidenza onoraria a Ferruccio De Lorenzo che accettò. L’ambiente “ordinistico” cominciò a diventarmi un po’ più familiare e nel 1990, al rinnovo delle cariche, mi candidai come revisore dei conti, fui eletto ed entrai per la prima volta nel consiglio direttivo dell’Ordine dei medici di Napoli. Sedevo accanto a consiglieri del calibro di Giuseppe Zannini, Italo Covelli, presidente della Croce Rossa Italiana, Paolo Pomicino che era stato ministro del Bilancio, Carmine Mensorio, deputato, due grandi nomi del Santobono quali Nando De Sanctis e Mario Bernicanani, e Giuseppe Del Barone che subentrò a De Lorenzo nel 1993 ed è stato presidente dell’Ordine per sei mandati. Nel ’93 entrai in Consiglio in opposizione a lui e ci rimasi fino al 1999. Intanto l’anno prima avevo lasciato il Nuovo Pellegrini».

E dove era andato?

«In un pomeriggio di giugno mentre ero in vacanza in Sardegna mi telefonò il direttore generale del Monaldi, Domenico Pirozzi. Mi disse che doveva aprire ex novo un centro trasfusionale e mi chiese se volevo trasferirmi da lui per occuparmene con la qualifica di Aiuto. Disponeva solo dei locali. C’era in programma un concorso per primario per il neo reparto al quale avrei potuto partecipare. Rimasi perplesso per quella telefonata e presi tempo, ma sono una persona che ama le sfide e, terminata l’estate, lo contattai e accettai la proposta. Il primo ottobre del 1998 mi trasferii come Aiuto al Monaldi e Pirozzi mi incaricò di aprire il centro trasfusionale. Iniziai subito partendo da zero, consapevole che correvo il rischio di non vincere il concorso ma il mio obiettivo era quello di rispettare l’impegno preso. L’ esperienza accumulata negli anni fu premiante, diventai primario e firmai il contratto il primo marzo del 1999. Due mesi dopo, il 3 maggio, aprii il reparto con risorse interne che avevo riconvertite ad eccezione di un medico e di un tecnico presi dall’esterno. È stato un crescendo continuo e dal 2016 sono capo dipartimento di tutti i servizi trasfusionali degli ospedali napoletani».

Che cosa significa?

«Coordino i servizi trasfusionali della Federico II, della Vanvitelli, dell’ospedale del Mare, del San Paolo, del Pascale, del Pausillipon e, naturalmente del Monaldi, che è la mia sede di lavoro. L’obiettivo è di uniformare i comportamenti e le procedure e standardizzarli perché le strutture trasfusionali sono tutte accreditate. Ogni due anni abbiamo delle verifiche per accertare se lo standard qualitativo di ogni singola struttura sia tale da consentirle di rimanere accredita».

Parallelamente ha continuato il suo impegno all’Ordine dei medici di Napoli. Con quale sviluppo?

«Nel 2002 diventai vice presidente dell’Ordine, poi per motivi politici il mio sindacato decise di non candidare suoi iscritti. Ritornai in campo nel 2009 e diventai segretario. Nel 2011 vinsi le elezioni e diventai presidente dell’Ordine. Nel 2014 per un “gentlemen agreement” con un collega feci un passo indietro in suo favore e ho fatto il vicepresidente per 6 anni. Alla tornata elettorale del 2021, in ritardo per la pandemia da Covid 19, sono stato rieletto presidente dell’Ordine dei medici, il cui mandato da quest’anno è diventato quadriennale».

Qual è la sua priorità come Presidente?

«Dare una svolta e ricostruire il patrimonio di medici giovani e non che abbiamo perso per il commissariamento che è durato dieci anni, dal 2009 al 2019, e recuperare il posto che merita la nostra categoria che vanta una scuola storica di altissimo prestigio. Pochi giorni fa ho presieduto il giuramento di Ippocrate fatto da mille nuovi medici al teatro Augusteo. Ho evidenziato che negli ultimi dieci anni 140 medici napoletani sono andati all’estero e non sono più rientrati. Moltissimi, poi si sono trasferiti nelle regioni del Centro-Nord perché da noi non tovavano occupazione. Tutto questo è follia! Dobbiamo ritornare a essere attrattivi per non perdere più risorse e padroni dell’informatizzazione altrimenti saremo fagocitati dal “dottor Google”».

Il suo messaggio?

«Preservare il patrimonio dei giovani per tutelare gli anziani».