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di Armida Parisi

Occhi grandi e scuri. Ti osservano. Brillano sull’ovale elegante del viso e lo illuminano di una luce intensa e fragile. Ha uno sguardo bambino, Antonella Stefanucci, mentre parla con semplicità del suo lavoro di attrice, dei sui incontri sul set, delle numerose esperienze tra teatro e televisione. Se ne sta seduta in un angolo di divano a casa sua - «Ho appena finito di arredare questo studio, per farne uno spazio tutto mio», dice soddisfatta e si confida.

IL LAVORO. Ripercorre i bei tempi di Telegaribaldi, in cui ha dato il meglio di sé come attrice comica. Sorride ripensando alle sue esperienze di teatro al femminile: «Tante attrici insieme, eravamo una forza. Il nostro era un modo di far ridere meno aggressivo, più sottile, più delicato di quello maschile». Non nasconde l’orgoglio di aver recitato in tante fiction televisive - tre serie di “Capri”, “Giuseppe Moscati”, “Che Dio ci aiuti”, “Un’altra vita”- mentre è appena tornata dal set di “Questo è il mio Paese”, con Violante Placido, che sarà trasmesso dalla Rai.

IL TEATRO. Il grande amore rimane però il teatro, «che è sempre stata la mia casa» sottolinea. Figlia d’arte, i suoi genitori sono due maestri della creatività partenopea: Tony Stefanucci e Rosa Panaro.  Antonella si è infatti diplomata in Scenografia all’Accademia di Belle Arti e si è subito data alle scene. Numerosi i grandi con cui ha lavorato: da Aldo Giuffré a Geppy Gleijeses, da Silvio Orlando a Vincenzo Salemme, passando per Peppe Lanzetta e Armando Pugliese.
«Oggi, però, è sempre più difficile recitare» spiega con disappunto. «Per tenere sotto controllo i costi e battere cassa, si punta su un unico grande nome mentre, per il resto della compagnia, si preferiscono attori giovani».

LE FICTION. In tv le cose vanno anche peggio, in quanto tutte le produzioni sono state spostate a Roma e perciò, chiamare attori che vivono a Napoli risulta più dispendioso. Un tempo, neanche tanto lontano, non era così: « Si stava creando un bel mercato di fiction anche qui: partivano da Napoli sostenute dalla Regione, in accordo con la Film commission. Era nato  un indotto importante fatto di maestranze, tecnici, costumisti, sarti. Poi però si è fermato tutto per mancanza di fondi. Adesso anche le fiction che si girano a Napoli arrivano dalla Capitale: “Gomorra” è un prodotto tutto romano, dal regista alle maestranze». Solo questione di soldi? Viene da chiedersi. «Non solo, si tratta anche di politica. Sono al ritorno dalla Puglia, che a mio avviso si muove bene perché ha imposto alle produzioni romane di garantire  una percentuale di contratti di lavoro ad attori e tecnici pugliesi. Anche qui si potrebbe seguire questa linea: non dobbiamo essere a tutti i costi colonizzati, il lavoro lo sappiamo fare anche noi».

LA SPERIMENTAZIONE. La voce di Antonella si fa appassionata. Gli occhi s’infiammano. E le mani, che prima se ne stavano quiete, sottolineano l’enfasi delle parole. È bella, questa donna. Bella nella sua maturità di attrice, moglie, madre. Quello col marito è anche un sodalizio artistico: Domenico Ciruzzi, infatti, oltre che ottimo penalista, è anche autore dei monologhi interpretati dalla Stefanucci. «Insieme abbiamo prodotto “Pregiudizi convergenti” che è andato in scena a Napoli, al Mercadante, e a Roma al Tor Bella Monaca. È un lavoro scomodo che mette a nudo i pregiudizi della magistratura nei confronti di un’umanità modesta e dolente. In autunno, invece sono stata al Sancarluccio con “Cavallapazza”, un monologo molto divertente scritto sempre con mio marito». Nei confronti del figlio diciassettenne, Antonella è una madre come tante, ma un pochino speciale per quel tocco di leggerezza in più con cui entra nel suo mondo di adolescente, fatto di scuola, amici, passioni.

LO SLOGAN GIOVANILISTA. Stupisce che una persona così completa sia, tutto sommato, poco presente nel mondo dello spettacolo. Tutta colpa di quello che lei definisce “lo slogan giovanilista”: «Il livello di età delle attrici si abbassa sempre di più e i registi vanno un po’ per schemi: la bionda, la bruna, la trentenne, la magra, la alta. Cercano una faccia. Vorrei sensibilizzare i registi ad avere più coraggio nello scegliere gli attori. Gli attori sono dei creativi: molto di più che una faccia». Prende a esempio la recente esperienza pugliese. Lei è entrata alla fine della serie, con un piccolo  ruolo di operaia, protagonista di una sola puntata. Tra gli attori del cast fisso, certamente la più anziana: «Ebbene – eccola che s’accende di nuovo - da due battute, che dovevo dire secondo copione, ho fatto crescere il personaggio al punto che siamo stati a girare tre ore. Perché l’attore, quando diventa maturo, è padrone di sé, diventa un interlocutore del regista e anche un maestro per tutti gli altri attori. È così che è bello lavorare. È così che il film diventa un’opera d’arte. Non può essere solo questione di costi di produzione. Il prodotto deve avere un’anima, no?».

GLI STEREOTIPI. Eccotela che ritorna al punto dolente: i costi, i tagli, la quantità che prevale sulla qualità. Gira e rigira i nodi tornano al pettine. E l’artista non riesce a nascondere la sua amarezza: «L’attore, con la sua faccia consumata, ti regala un’emozione: è questo che ci ha insegnato il teatro di Viviani e di Eduardo. Invece oggi è in corso un vero e proprio imbarbarimento dello spettacolo. Si ricade negli stereotipi più abusati. Si ride per  due “zizze appese” o per un “culo grosso”. L’ultimo grande è stato Massimo Troisi, che con la comicità ha fatto poesia. Adesso si cade nella sguaiataggine».
Un sospiro e uno sguardo d’intesa bastano a sciogliere la malinconia. Antonella è così: leggera e concreta. «Scappo perché ho lezione d’inglese».

 

 

 

 

Ritratto di a.parisi

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