Tullio Pironti (nella foto), 80 anni compiuti il 10 giugno scorso, nasce in via Tribunali 175, nell’antico palazzo del duca di Traetta. Ultimo di sei figli, è la terza generazione della storica famiglia di librai iniziata con il nonno Michele e continuata dal padre Antonio. Ha scritto due libri sulla sua vita. Il primo, curato dal giornalista Mimmo Carratelli, è “Libri e cazzotti”. È stato tradotto negli Usa e in Croazia, e se ne farà un film. Il secondo è “Il paradiso al primo piano”. Nel 2016 ha ricevuto l’attestato di benemerenza e la medaglia del Comune di Napoli per una vita spesa per amore dei libri. Ha una figlia, Stefania, e quattro nipoti: Cesare, Chiara, Liliana e Stella. «Ho trascorso la mia infanzia di scugnizzo nel decumano maggiore - racconta - Frequentavo la scuola elementare di vico Fico al Purgatorio che prende il nome dalla chiesa delle anime del Purgatorio, che i napoletani conoscono come “’a chiesa re’ cape ’e morte”, per i quattro teschi di bronzo posti all’entrata del portone. Ora ne sono tre perché uno è stato rubato».

Perché si definisce scugnizzo?

«Prima di entrare in classe “combattevo” con la mia banda contro quelle rivali alla “guainella”. Ci lanciavamo pietre gli uni contro gli altri. Un giorno per non avere obbedito all’ordine di fare silenzio, il maestro De Renzi mi diede cinquanta bacchettate sulle mani con una stecca di alluminio. Umiliato, presi il cappotto e scappai via dalla scuola e mi rifugiai a casa. Fu in quell’occasione che mio padre, rimproverandomi aspramente, mi parlò delle origini della nostra famiglia». E cosa le disse? «Ricordo le sue parole pronunciate con tono burbero e altero insieme: “non puoi continuare con le tue scostumatezze e la devi smettere di fare lo scugnizzo. Portiamo un nome di cui devi essere degno. Il fratello di mio nonno, Michele Pironti, è stato un grande uomo, un patriota e un magistrato importantissimo tanto che di fronte all’Università c’è una strada che porta il suo nome. Al tempo dei Borbone lo zio Michele fu arrestato e condannato a morte con altri due grandi patrioti, Luigi Settembrini e Carlo Poerio. La condanna fu tramutata in carcere a vita grazie alla difesa che preparò per tutti proprio zio Michele che in seguito fu nominato senatore del Regno da Vittorio Emanuele”».

Le servì questa lezione?

«Tornai a scuola e ottenni la licenza media ma poi non ne volli più sapere di studiare e cominciai a vendere giornaletti, dopo averli letti, su una bancarella davanti alla libreria di mio padre».

Quando ha iniziato a fare pugilato?

«Per caso, a quindici anni. Volevo fare lo schermitore come papà e andati al Coni ai Cavalli di Bronzo. Mi dissero che dovevo comprare tutta l’attrezzatura, ma non avevo una lira. Un mio amico, allora, mi accompagnò alla palestra di pugilato “Olimpia”, nella elegante via dei Mille. Conobbi il maestro Nino Camerlingo, noto nell’ambiente. L’anno dopo feci il mio primo incontro nella categoria welter. Il mio avversario si chiamava Laudadio, per tutti “’o castellone”, perché era di Castellammare di Stabia. Vinsi per ko».

È stato anche in nazionale?

«Con Nino Benvenuti. Lui era il primo e io, come al solito, l’ultimo ».

Perché smise?

«Per un terribile ko. Avevo disputato 50 incontri senza mai andare al tappeto. Fui abbattuto da un giovane torinese di nome Zara che aveva due braccia che sembravano due clave. Ero molto tecnico e prendevo pochi pugni. Quella volta fui messo al tappeto con un colpo terrificante. Ricordo che il medico mi chiedeva ripetutamente: “che giorno è” e io gli rispondevo “non lo so”. Avevo promesso a me stesso che qualora avessi subito un ko avrei smesso. Mantenni la parola».

E che cosa fece?

«Il ragazzo di bottega da papà in libreria fino a 25 anni».

Quindi?

«Venni a sapere che in via Capitelli, quasi a piazza del Gesù, si cedeva una libreria per un milione di lire. Papà mi prestò i soldi. Ebbi la genialità di inventare “il libro di occasione” a Napoli. Fu un successo e in un anno saldai il debito con papà».

Che significa “il libro di occasione”?

«A quei tempi le case editrici Laterza ed Einaudi facevano uno sconto del 50% ai librai che realizzavano un ottimo fatturato. Dovevo ottenere lo stesso trattamento. Mi misi d’accordo con il proprietario di una grande libreria che ordinava anche per me a nome suo. Cominciai a vendere i libri con il 30% di sconto raggiungendo in un anno un fatturato incredibile. Da me venivano tutti gli intellettuali a partire da Giuseppe Galasso. Veniva anche una figlia di Benedetto Croce, Alda. Non dimenticherò mai quello che mi disse un giorno: “Mi piace venire da voi perché quando vi chiedo un libro mi accorgo che vi emozionate”. Con questa idea, tra le ira dei colleghi, ben presto divenni la prima libreria napoletana per fatturato e guadagnai moltissimo».

Poi però andò da suo padre a piazza Dante…

«Papà un giorno mi disse che era stanco e mi chiese di dargli una mano. In realtà era in difficoltà perché le cose non gli andavano bene. Con la mia solita spavalderia mi addossai tutti i suoi problemi. Affidai la gestione della mia libreria all’amico giornalista Franco Esposito e mi dedicai anima e corpo a quella di papà. Ero a stretto contatto con le grandi librerie, che oggi hanno chiuso, come Guida, Arturo Berisio, Cassitto, Pacifico e quelle dei miei fratelli Wanda, Guglielmo e Ugo. Salvai papà grazie anche al contributo fondamentale di mia madre Rosa che è stata una grande donna».

Quando diventa editore?

«Grazie a Mimmo Carratelli. Ricordo che leggevo i suoi articoli sulle Olimpiadi di Monaco del 1972 ed erano così belli che li conservai tutti. Quando tornò a Napoli gli proposi di raccoglierli in un libro e lui accettò con piacere. Nacque così “Monaco ’72. La lunga notte dei fedayn”. Come sigla editoriale scelsi “Libreria Tullio Pironti”». Come fu accolto il libro? «Ebbe molto successo e mi procurò una proposta da parte di Marino Freschi, Horsty Künkler, Arturo Martone e Giulio Raio, tutti professori dell’Istituto Universitario Orientale di Napoli, di fare una rivista di studi filosofici e di sociologia. Nacque “Metaphorein” e io entrai in un mondo, fino ad allora sconosciuto, che mi incantava».

Quando fece il grande salto?

«Quando conobbi Giuseppe Marrazzo, il grande Joe. Lo avvicinai mentre era al ristorante “Dante e Beatrice”, qui in piazza Dante. Gli dissi che volevo pubblicare un libro scritto da lui. Mi chiese: “ma fate l’editore?” e io risposi: “sono Tullio Pironti e ho pubblicato Metaphorein”. Mi chiese tra il serio e il faceto: “ma serve per il mal di testa?”. Poi aggiunse: “Che libro vorreste fare con me?”. “La vita di Raffaele Cutolo”. “Si può fare” disse. “Ma ci dobbiamo incontrare all’Exelsior e ne parliamo. Io ho costi molto alti”. Ci incontrammo, gli risultai simpatico e accontentai le sue richieste: firmammo il contratto. Uscì il libro, “Il camorrista”, e mi chiamò Giuseppe Tornatore. Voleva fare un film tratto dal romanzo con protagonista Ben Gazzara. Ci vedemmo a Roma con lui e l’attore. Gli cedetti i diritti come editore, Marrazzo quelli di autore e uscì la pellicola che ha lanciato Tornatore come regista».

C’è un altro episodio molto importante legato a Marrazzo…

«Un giorno Joe mi chiamò da New York e mi disse che lì era uscito un libro che stava avendo un grande successo. Parlava di una vicenda che riguardava il Vaticano e lo Ior. Lo aveva scritto un reporter del New York Times, Richard Hammer. Mi informò che in Italia nessuno voleva pubblicarlo. Era intitolato “ The Vatican Connection” con sottotitolo “Come il Vaticano ha comprato azioni false e rubate per un miliardo di dollari”. Presi il coraggio a due mani e acquistai i diritti. Poi incontrai a Bologna Gianfranco Dallari, presidente del Consorzio Distributori Associati, che accettò di distribuire sia “Il camorrista” che “The Vatican Connection”. Il libro fu sequestrato, ma vinsi la causa e ottenni il dissequestro che mi procurò una incredibile pubblicità».

Tra i tanti, ha pubblicato anche altri due libri importanti…

«“In nome di Dio. La morte di papa Luciani”, che ristampo ancora oggi, e “Dopo Hemingway” di Fernanda Pivano che è stata il mio angelo custode». Ha il merito di aver fatto conoscere in Italia autori stranieri divenuti poi famosi… «Don De Lillo, Bret Easton Ellis, Raymond Carver, il Premio Nobel egiziano Naghib Mahfuz. Particolare eco riscuotono tuttora i libri-reportage di David Yallop, John Cornwell, Philipp Willan, Leopold Ledl».

Ha conosciuto anche Umberto Eco. Quando lo incontrò?

«Non molti anni fa. Un giorno una mia collaboratrice, guardando dietro di me, diceve ripetutamente: “Eco, Eco”. Non la capivo e le chiesi che volesse. Rispose: “sta venendo Umbero Eco”. Gli andai incontro e lo portai a pranzo al ristorante “53”, sempre a piazza Dante. Non ebbi il coraggio di chiedergli di fare un libro con me».

Quanto si legge oggi?

«Poco e si usa il tablet. Il libro viene salvato da chi ama annusare la carta. Non a caso recentemente sulla rete televisiva nazionale gira uno spot che invita alla lettura dei libri. La scuola deve insegnare ai ragazzi a leggere, perché il libro è un mezzo di cultura insostituibile».

Si definisce libraio o editore?

«Sicuramente libraio. L’editoria mi dà emozioni perché è piena di incognite e anche di rischi. La libreria invece dà certezze, anche se è scomparsa la figura del libraio che dà consigli al cliente su cosa leggere. Oggi con i media e la rete, il cliente entra in libreria e sa già cosa acquistare».

Ci sarà la quarta generazione dei Pironti?

«È molto difficile. Ho detto a mia nipote Chiara, che sta con me in libreria, che se le cose dovessero andare male potrà aprire qui un ristorante».

Qualche rimpianto?

«No, perché ho fatto tutto quello che volevo, anche sbagliando. Sicuramente se quando ero all’apice come editore, secondo nelle classifiche delle vendite dopo Mondadori, le istituzioni mi avessero dato una mano, oggi le cose starebbero diversamente ».