Franco Manna (nella foto) è il presidente di Sebeto Spa, gruppo di ristorazione che ha nel marchio “Rossopomodoro” la sua punta di diamante. Gli altri marchi sono “Anema e cozze”, ristoranti di mare, “Ham” hamburgerie gourmet presenti nel Nord e Centro Italia, “Rosso sapore” che è presente sulle autostrade e negli aeroporti con il take away. La sede legale è a Milano, quella finanziaria a Londra e quella creativa e operativa a Napoli. Figlio di operaio, è un self made man. Sposato con Stefania, professoressa di matematica, è padre di tre figli. Il maggiore, Jacopo di 19 anni, studia all’università a Londra, il secondo, Niccolò di 17 anni, frequenta il liceo e gioca a rugby, la terza, Giordana, ha 11anni e frequenta la prima media. Laureato in biologia, ha lavorato all’Università Federico II sul Dna ricombinante dei selacei, cioè degli squali. Da biologo a gestore di una palestra e poi a “pizzaiolo”.

Come è successo?

«Per una forte delusione lavorativa. Volevo fare la carriera universitaria. Ero interno al Dipartimento di biologia evolutiva e comparata alla Federico II in via Mezzocannone e collaboravo con quello di biologia marina della stazione zoologica Anton Dohrn, in villa comunale. Per motivi connessi con le “logiche” universitarie non ci riusciì perché il posto andò ad una collega, con mio profondo sconforto e frustrazione. Decisi allora di lasciare quel mondo “elitario” e di “nicchia”. Durante l’estate per sbarcare il lunario facevo il maestro di wind surf a Palinuro e in una occasione conobbi Geppy Marotta il quale mi propose di aprire una palestra. A noi due si aggiunse anche Pippo Montella. Con il prestito di 3 milioni di lire fattomi spontaneamente dalla fidanzata di un amico che lavorava alla Rinascente, nel 1984 contribuii ad aprire la palestra “Video Gym” a via Morghen. Fu una cosa molto importante perché mise insieme tre persone con professionalità completamente diverse: io biologo, Geppy impiegato postale e Pippo professore di educazione fisica. Rappresentò anche una palestra di vita molto formativa e ci consentì di avere rapporti sociali che ci ritornarono utili nelle nostre attività future di ristoratori».

Quando apriste “Pizza e contorni”?

«Nel 1988. Sempre a Palinuro avevamo conosciuto al “Lanternone”, dove Geppy lavorava come animatore, il pizzaiolo Ciro Magno, componente di una storica famiglia napoletana di pizzaioli, chiamata “Scignitella” perché erano tutti molto brutti. Oggi i suoi pronipoti lavorano nelle nostre pizzerie sparse in Europa. In quel locale facevano un grosso buffet di contorni che noi vedevamo come una cosa bellissima, ma intoccabile. Ciro un giorno ci propose di aprire una pizzeria a Napoli. Nella nostra mente si accese una lampadina e pensammo di unire alla pizza anche un assortimento di contorni a libero accesso. Trovammo il locale a via Massimo Stanzione, al Vomero. L’idea vincente fu quella di proporre ai clienti tre tipologie di piatti: small, medium e large, da riempire come si voleva. Il prezzo era rispettivamente di 3, 5 e 7 mila lire. Siamo stati gli antesignani della formula “all you can eat”. I primi a venirci a trovare furono i frequentatori della palestra e fu subito un successo grazie al passaparola che cominciò da loro. Ricordo che quando il lunedì di febbraio c’era Sanremo, giornata nera per tutti i ristoratori, avevamo un’ora di fila fuori al locale. L’anno dopo aprimmo un “Pizza e contorni” anche a Los Angeles. E poi negli anni tanti altri in Italia».

Quanto vi è stata utile l’esperienza americana?

«È stata fondamentale. A Santa Monica, che è la parte di Los Angeles che si affaccia sul mare, cominciammo a vedere modelli di ristorazione assolutamente innovativi. A quei tempi, a Napoli in particolare, si conosceva la cucina casareccia e tradizionale con il menu scritto a mano. Il marketing era inesistente. Lo imparammo e lo applicammo alla nostra attività. Cominciammo, quindi, a “sapere” vendere i nostri prodotti e capimmo l’importanza del passaparola, unico ed efficace sistema promozionale nel settore della ristorazione ».

Nel 1998 apriste il vostro primo ristorante - pizzeria “Rossopomodoro”. Perché questo nome?

«Prendemmo in fitto l’ex “Quattro stagioni” in corso Vittorio Emanuele perché volevamo aprire il quinto “Pizza e contorni” in città. Individuammo il direttore in un amico, Francesco Spilabotte, Ceffo per tutti e soprannominato “‘o russo” per il colore dei capelli. Lavorava d’estate in un ristorante alle Eolie. Quando io e Geppy andavamo a vedere i lavori di ristrutturazione del locale dicevamo: “jammo a ddo russo”. Avvicinandosi il giorno dell’inaugurazione ci dicemmo: “perché il ristorante non lo chiamiamo dal rosso”. Lelia, la moglie di Geppy, architetta, ci fece il marchio con un pomodoro rosso rotondo. Questo ci ispirò il nome pomodoro rosso. Un nostro amico vide il marchio e ci suggerì il nome rossopomodoro dicendoci di sostituire il pomodoro tondo con il San Marzano nostrano, quello lungo. Questo è stato ed è il nostro marchio che contiene la precisazione “cucina e pizzeria napoletana”. Dopo un anno aprimmo a Parma. Quindi a Milano, dove spiegammo che la nostra pizza è morbida perché è nata per essere mangiata con le mani, piegata in quattro, a “portafoglio”».

La svolta quando c’è stata?

«Nel 2005 quando abbiamo iniziato un percorso di private equity con il fondo italiano “Quadrivio” che è diventato il quarto socio fino al 2011. Nel frattempo due anni prima, nel 2003, era andato via Geppy Marotta e al suo posto avevamo cooptato Roberto Imperatrice che era un nostro amico commercialista. Dal 2011 è entrato nella compagine societaria il fondo inglese “Change Capital”».

Che cosa è il “private equity”?

«Una tecnica d’investimento consistente nel finanziare una società non quotata in Borsa, ma dotata di elevate potenzialità di crescita, per poi disinvestire con lo scopo di ottenere plusvalenze dalla vendita della partecipazione azionaria».

Come ci siete arrivati?

«Un amico mi disse che Banca Akros, Banca d’Investimento e Private Banking del Gruppo Bpm, voleva farci da advisor, cioè da consulente per un’operazione di private equity e noi andammo ad ascoltare. La cosa ci sembrò un’ottima opportunità per chi come noi aveva tante idee di sviluppo e capitali limitati».

Che cosa ha significato per voi l’ingresso del fondo come quarto socio?

«Un salto di qualità a 360°. Con il fondo Quadrivio da 25 locali siamo passati ad 80. Con Change Capital, ad oggi, ne abbiamo 143 distribuiti in dieci nazioni nel mondo. Quelli nelle capitali e nelle città più importanti sono di nostra proprietà. Gli altri li abbiamo dati in franchising. A fine aprile apriremo “Rossopomodoro” a San Paolo in Brasile. Inoltre abbiamo acquisito una managerialità che ha come interlocutore dialettico il mercato e siamo diventati un’azienda scalabile la cui esistenza non risente dei cambiamenti degli assetti societari».

Perché la società si chiama Sebeto?

«Perché tutte le mie attività sono partite da Napoli per poi andare nel mondo, proprio come il mitico fiume che, nascendo dal “Vesevo”, arrivava al mare».

Il segreto del vostro successo?

«Avere esportato la napoletanità nella ristorazione. Fin da subito decidemmo di avere cinque fornitori base che ci mandavano i loro prodotti nelle altre città italiane e all’estero. La farina di Caputo, la mozzarella dop di LadyBu, la pasta di Gragnano, l’olio extra vergine d’oliva Gargiulo di Sorrento, il pomodoro Roma coltivato soprattutto nell’area pugliese».

Come presidente del Cda di Sebeto Spa, qual è la sua giornata lavorativa?

«Meglio parlare di settimana. Il lunedì sono sempre a Napoli. È la giornata clou in cui si fanno reporting, briefing e si prendono tutte le decisioni che riguardano la vita aziendale e il suo core business. Un giorno sono a Milano e un altro a Londra. Un terzo lo dedico ai nuovi posti dove pensiamo di aprire. Il mio compito fondamentale è quello di “ispirare” e stabilire le strategie aziendali, guardando nel suo futuro, prevedendo e anticipando cambiamenti e scelte, specialmente nei prodotti ».

Progetti nuovi?

«Tanti. Cito la mia visita a Bologna della scorsa settimana. Mi sono incontrato con Tiziana Primori, direttore Sviluppo Partecipate del gruppo Coop Adriatica, vice presidente di Eataly e ad di Eataly World Bologna, la società che sta realizzando e gestirà il primo parco tematico dedicato all’eccellenza dell’agroalimentare italiano: Fico (Fabbrica Italiana Contadina). Nel parco saremo presenti con il marchio “Rossopomodoro”».

Ha trascorsi sportivi in diverse discipline, anche importanti…

«Ho giocato per tanti anni nella Partenope allenata da Elio Fusco disputando i campionati di serie A. L’amore per questo sport non mi ha mai abbandonato e l’ho trasferito ai miei figli, Jacopo e Niccolò. Insieme a dieci amici, ex rugbisti, ho creato il “Villaggio del rugby” nell’ex base Nato di Bagnoli. Oltre al windsurf, mi piace sciare e quando è possibile nei fine settimana lo faccio insieme a mia moglie».