Antonello Perillo (nella foto) è un giornalista della Rai ed è capo redattore centrale, responsabile della testata giornalistica regionale della Campania.

«Nasco in casa, come si usava una volta, in una famiglia molto bella di cui ho grandi rimpianti perché ho perso sia mamma che papà. Sono l’ultimo di tre figli con due fratelli più grandi. Papà era magistrato e mamma era la classica casalinga dedita al marito, all’educazione dei figli e alla conduzione della casa. Inspiegabilmente già da bambino avevo la passione per il giornalismo. Con una mia coetanea, vicina di casa e con la quale sono cresciuto, ci eravamo inventati un gioco: scrivevamo su un quaderno finti reportage sulle partite di calcio del Napoli. Ho scoperto che li conserva ancora oggi».

Quando si è avvicinato al giornalismo vero?

«Durante l’ultimo anno del liceo classico all’Umberto cominciai a frequentare l’agenzia Rotopress. Ricordo che il giorno del colloquio mi accompagnò papà. Lì ho incontrato una delle persone che ha segnato in positivo la mia vita: Antonio Sasso. Ho cominciato la gavetta andando sui campi di calcio il sabato e la domenica a seguire le partite di Promozione e poi l’Intersociale, il torneo amatoriale più antico d’Italia».

Come i suoi fratelli maggiori non ha seguito le orme paterne. C’è qualche ragione in particolare? «La passione che avevo fin da piccolo fu rafforzata da alcuni gravi episodi legati al fatto che papà era giudice penale e curava processi molto delicati».

Può parlarcene?

«Ne ricordo due particolarmente forti. Quando mi capita li racconto anche in pubblico, soprattutto ai giovani, come esempio di legalità e dell’impegno della maggior parte dei magistrati. Un giorno, uscito dal liceo Umberto, mentre rientravo a casa, mi accorsi di essere seguito da due signori. Ero terrorizzato e raccontai l’episodio a mio padre. Minimizzando l’accaduto mi spiegò che a Licola, in un covo di terroristi, avevano trovato delle fotografie di giudici e che quei due signori erano carabinieri che per precauzione mi avevano “scortato”. Venni a sapere che tra le foto c’era anche quella di papà e che tutti i volti erano “centrati” con un mirino. Erano gli anni ’80 e nel gergo dei terroristi quel simbolo significava morte. Il secondo fu quando avevo 17-18 anni. In famiglia eravamo in continua tensione. Mentre stavo a scuola sentimmo un trambusto enorme. All’improvviso entrò in classe un ragazzo e ci disse di uscire dall’edificio perché nei pressi del liceo avevano ucciso un magistrato. Tutti i miei compagni si girarono a guardarmi. Rimasi pietrificato perché pensai che si trattasse di mio padre. Finalmente fu fatta chiarezza e venne la notizia ufficiale che la vittima dell’attentato delle Brigate Rosse era Pino Amato, un politico molto apprezzato. In quel momento, mi dispiace dirlo, sono quasi rinato, pur nel dolore per la morte di un uomo».

Dopo il diploma di maturità si iscrisse all’università?

«Alla facoltà di giurisprudenza della Federico II, soprattutto per accontentare mio padre che vedeva nella laurea il presupposto necessario per trovare un lavoro sicuro. Per me era comunque un peso e un ostacolo alla professione di giornalista che era l’unica cosa che volevo fare. A quei tempi, molto più di adesso, non era necessario essere laureati per farlo».

Perché considerava gli studi universitari quasi un intralcio?

«Mi sono fermato a 14 esami sostenuti su 21 perché non avevo tempo a sufficienza, in quanto lavoravo per il settimanale “Napoli Oggi” e poi soprattutto per il quotidiano “Il Giornale di Napoli”, entrambi diretti dal professor Orazio Mazzoni. Quella esperienza lavorativa, giorno e notte, quasi tutti i giorni dell’anno, segnò la mia fortuna ».

Ci spieghi.

«Il professore Mazzoni quando fondò “Il Giornale di Napoli” mi chiese se me la sentissi di fare parte del suo gruppo di lavoro perché l’impegno era quotidiano. Gli risposi di sì e mi misi in gioco. Per la seconda volta il mio percorso si incrociò con quello di Antonio Sasso. Era il caporedattore centrale e il capo dello sport. Sasso mi ha forgiato e mi ha insegnato il mestiere chiedendomi impegno a qualsiasi ora del giorno. Il lavoro prima della fidanzata, degli amici, di tutto il resto. Credo di non averlo mai deluso».

Di che cosa si occupava?

«Fin dal primo giorno ho scritto un’infinità di articoli ma facevo anche quella che nel nostro gergo si chiama “cucina”. Ero fisso in redazione, mettendomi a disposizione sotto molti aspetti. Le mie passioni erano lo sport e soprattutto la cronaca nera. Mi chiamavano “black” in contrapposizione a Ottavio Lucarelli, soprannominato “white” perché si occupava della bianca. Quando ci vedevano insieme ci chiamavano “black & white”. Io e Ottavio eravamo inseparabili. Mi inventai la pagina giornaliera sulle “madri coraggio” che avevano denunciato i figli pur di salvarli dalla droga. Fu un bel successo. In redazione c’erano anche un giovanissimo Mario Orfeo, con il quale a lungo divisi la scrivania, Alfonso Ruffo, Roberto Napoletano e tantissimi altri colleghi poi diventati firme nazionali. Mario è nato direttore. Gliel’ho sempre detto perché già da allora dimostrava le sue qualità. Ricordo che quando la sera, intorno alla mezzanotte, mentre il giornale era alle rotative, andavamo a mangiare una pizza, Mario spesso preferiva restare in redazione per disegnare le pagine per il giorno dopo che gli aveva assegnato Antonio Sasso».

E l’università?

«Un giorno mi assentai dal giornale per sostenere un esame. Mi andò anche bene perché presi ventisette. Quando rientrai il professore Mazzoni mi rimproverò energicamente perché c’era stata un’emergenza di cronaca e chiese di incontrarmi con mio padre, che aveva conosciuto per motivi di lavoro. Papà venne e lo ringraziò per quello che stava facendo per me. Gli spiegò, però, che voleva che io mi laureassi perché in questo modo potevo aspirare a un lavoro che mi garantisse un futuro. Mazzoni gli rispose: “tuo figlio è nato per fare questo mestiere. Se vuoi che faccia lo scienziato portatelo a casa ma per me sbagli”. Papà replicò: “di fronte al grande Mazzoni mi inchino”. Le parole del direttore mi inorgoglirono molto. Lo considero un secondo maestro perché ha avuto fiducia in me».

Poi passò al giornalismo televisivo. Quale fu l’occasione?

«Da piccolo, seduto sulle ginocchia di mio nonno, seguivo il telegiornale. Lui mi spiegava che cosa rappresentavano le immagini trasmesse da quella scatola “magica”. Sognavo che da grande avrei fatto anche io il giornalista televisivo. L’opportunità nacque quando a Napoli fu fondata l’emittente privata Canale 8. Era molto forte e seguita. A capo c’era Maurizio Iapicca, manager di alto profilo. Chiesi di fare un provino negli studi di via Manzoni e piacqui molto a Iapicca. Fui assunto e iniziò quest’altra grande avventura che mi ha portato fino a diventare direttore, per la parte giornalistica, dell’emittente ».

Che ricordo ha di quella esperienza?

«Straordinaria al pari delle precedenti, ma diversa. Fare televisione presuppone una filosofia differente da quella che sottende il giornalismo della carta stampata».

Qualche iniziativa particolare?

«Quando ci fu la guerra in Iraq, Maurizio Iapicca e io pensammo di fare una serie di “speciali”, con collegamenti da e con il teatro di guerra. Volevamo dare attenzione e conforto ai genitori dei tantissimi militari italiani impegnati nelle operazioni di appoggio e tenere costantemente aggiornati sugli eventi bellici le migliaia di giovani campani in preallarme per la partenza. Contattai il grande inviato del Mattino, Vittorio Dell’Uva, che ogni notte si collegava in diretta telefonica da Baghdad».

Fece anche una storica trasmissione in occasione del secondo scudetto del Napoli.

«Una diretta ininterrotta di 24 ore con ospiti importanti. Iniziammo la sera prima della partita e finimmo la sera dopo. Nel corso della trasmissione, per scherzo, lanciai un appello ai telespettatori chiedendo loro caffè e cappuccino. Tempo dopo fui fermato per strada da una persona che mi chiese se lo riconoscessi. Alla mia esitazione disse: “dottò sono uno dei quelli che durante la notte dello scudetto le portarono caffè e cappuccino”. Lo abbracciai ».

Quando è entrato in Rai?

«Il 23 maggio del 1992, il giorno della tragica strage di Capaci. Era il periodo in cui la Rai faceva assunzioni dirette. Il caporedattore Pino Blasi mi aveva già apprezzato durante le trasmissioni su Canale 8. Aveva bisogno di volti nuovi. Mi disse che aveva proposto la mia assunzione alla direzione di Roma e che aveva ottenuto il benestare. Anche a lui devo molto. Mi ha accolto nella grande famiglia Rai come si fa con un figlio».

Qual è il ricordo giornalistico che ha maggiormente a cuore?

«Con il Giornale di Napoli, un servizio sull’omicidio di Giancarlo Siani. All’indomani del suo assassinio andai a casa dell’allora sindaco di Torre Annunziata. Gli dissi che nella cittadina c’era un clima strano che coinvolgeva anche la sua amministrazione. Mi mise alla porta. Feci un articolo di fuoco parlando anche di “scheletri nell’armadio”. Mazzoni me lo pubblicò. Fui sentito dai carabinieri e dal pm Vessia ai quali confermai tutto quanto avevo scritto. Con Canale 8, il periodo in cui Maradona decise di rilasciare interviste solo a me. Era l’anno del secondo scudetto e il campione tardò a rientrare a Napoli dall’Argentina. Saltò le prime 5 partite perché aveva litigato con il presidente Ferlaino. Nella conferenza stampa al centro Paradiso dichiarò: “da oggi sarò in silenzio stampa”. Ma era un uomo mediatico e ritornò sulla sua drastica decisione. Mi guardò e disse: “parlerò solo con te”. Così fu per alcuni mesi. Naturalmente io giravo ai colleghi le notizie che mi dava. In seguito lo incontrai e gli chiesi il perché di quella sua decisione. Mi rispose: “perché sei una persona onesta”. Con la Rai, il servizio sulla morte di Silvia Ruotolo. Sono stato il primo giornalista a dare la notizia. Aprii con l’inquadratura dello zainetto per terra che probabilmente apparteneva al suo figlioletto. Lo mandò in onda il Tg2 e il direttore Garimberti telefonò al caporedattore Blasi per complimentarsi».

Da sei anni è il capo della Testata Giornalistica Regionale della Campania. Poco giornalismo attivo ma tantissimo impegno manageriale.

«L’aspetto più delicato del mio ruolo di capo è la gestione delle risorse umane. Cerco di accontentare tutti e di garantire una serena atmosfera di lavoro. Però non si può dire sempre “sì” e bisogna fare accettare anche i “no”. Ho la fortuna di avere una squadra composta da bravissimi colleghi, giornalisti e in segreteria. Ciascuno di loro, oltre ad avere indiscusse capacità professionali, è dotato di una personalità forte. Il loro aiuto è per me fondamentale per svolgere al meglio la mia funzione. Non a caso stiamo registrando ascolti straordinari. Il 2018 è stato l’anno dei record per il tg delle 14 e per Buongiorno Regione. La nostra è una fabbrica giornalistica che apre la mattina alle cinque e finisce a mezzanotte e mezza, l’una. Abbiamo mediamente otto appuntamenti al giorno tra Buongiorno Italia, Buongiorno Regione, tg e radiogiornali. In più dobbiamo dare continuamente servizi ai Tg delle tre reti nazionali, a Rai News e anche a qualche trasmissione come, ad esempio, “La vita in diretta”, “Chi l’ha visto?”, “Porta a porta”. La nostra redazione, insieme a quella di Milano, fornisce più informazioni alle testate nazionali».

E la famiglia?

«Amo mia moglie Alessandra e nostro figlio Luca più di ogni altra cosa al mondo. Mi dispiace solo di non potere dedicare loro più tempo come vorrei».

È un grande tifoso del Napoli. Dopo la partita con la Stella Rossa dello scorso novembre, è caduto fuori la sede Rai di viale Marconi e si è fratturato una spalla. Circola un aneddoto sull’episodio. Ce lo racconta?

«Ero molto sofferente ed ero circondato da colleghi che mi chiedevano come mi sentissi. Quando il dolore si è affievolito ho detto: “meglio a me che a Mertens”. Ci aspettava la maxi sfida con il Liverpool...».