Con il prof. De Vivo, col quale in più occasioni ci siamo soffermati ad analizzare i mali dell’Università italiana in generale, e di quella napoletana in particolare, vogliamo approfondire il problema guardando oltre, ovvero cercando di ipotizzare una ricetta per il funzionamento migliore di quello che dovrebbe essere un centro d’eccellenza ma si rivela un gran carrozzone. «Negli ultimi giorni di mia attività di professore della Federico II, facendo una cernita fra i tanti documenti accumulati in oltre 40 anni di servizio, ne ho “riscoperto” uno che risulta di pregnante attualità. Il documento riguarda una sintesi di una conferenza organizzata a Tokio nel 1994 per celebrare il 125° anniversario della rivista Nature sul tema “L’Università moderna come centro di eccellenza”. In tale conferenza i partecipanti si accordarono nel fissare le seguenti condizioni per l’eccellenza: “Le differenze culturali, linguistiche e sociali richiedono che i sistemi universitari siano diversi fra di loro; ma esistono principi comuni che devono essere di guida nella ricerca dell’eccellenza: l’eccellenza deve essere il criterio fondamentale nell’assegnazione di posti (concorsi) e di fondi; l’eccellenza nella ricerca non è una scusa per un insegnamento mediocre; la verifica regolare ed obiettiva della ricerca e dell’insegnamento è essenziale; la flessibilità (di istituzioni e dipartimenti) è essenziale per rispondere ai cambiamenti delle circostanze e per cogliere le opportunità di ricerca (specialmente interdisciplinari); un’istituzione o un dipartimento che si basi prevalentemente su una selezione interna difficilmente può diventare o rimanere un centro di eccellenza e, per quanto è possibile, il personale straniero deve essere trattato allo stesso modo di quello nazionale; i collegamenti internazionali sono cruciali; le istituzioni devono essere libere di decidere come spendere il grosso dei loro fondi per la ricerca e per l’insegnamento; enti finanziatori esterni devono interferire solo nella misura richiesta per accertarsi che il denaro pubblico sia speso bene”. In buona parte ho cercato di fare miei questi principi, tentando, con testardaggine, invano di farli diventare patrimonio del Dipartimento (DiStar) nel quale ho operato nell’ambito della Federico II. In buona parte ho fallito perché, nel tempo, nell’Università non solo non è cambiato nulla rispetto agli anni passati, ma addirittura si è peggiorato il quadro, perché il sopravvento è stato preso, con le dovute eccezioni, da una pletora di yes-men e portaborse messi a gestire Dipartimenti in totale antitesi con i 7 principi enunciati nella Conferenza di Tokio del 1994. Il tutto con la complicità dei vertici delle Uuniversità. Secondo alcuni la soluzione dei problemi delle Università consisterebbe nella necessità di una maggiore erogazione di fondi da parte del governo. A fronte della richiesta di maggiori fondi, ci si aspetta forse che chi non è in grado di far funzionare al meglio le Università con gli scarsi fondi ora disponibili e con le opportunità che offre il governo (vedi chiamata diretta di professori italiani e stranieri di eccellenza, con budget a carico del ministero), all’improvviso con maggiori disponibilità di risorse, diventi per magia “virtuoso”, incominciando a premiare a tutto spiano meritevoli e non viceversa altri yes-men e portaborse? I fatti intervenuti in ultimo caso di malauniversità, confermano la correttezza di quanto sostenuto da Raffaele Simone: “è tutto il sistema universitario che andrebbe, come le case abusive, abbattuto e riprogettato…” (L’Espresso, 24/9/17). Il problema vero è che le valutazioni del merito, bibliometriche o non-bibliometriche che siano, dovrebbero essere sostenute dall’esistenza di un valore fondante che in Italia, semplicemente non esiste: l’etica personale e pubblica».