Il cibo è cultura perché condensa conoscenza, intelligenza, valori, credenze dell’uomo. Lo sostengono alcuni intellettuali, ma non tutti sono d’accordo. Altri pensatori ritengono, infatti, che il cibo divenga elemento di cultura solo nel momento in cui le persone lo mangiano insieme, ossia nel momento del convivio. Il pane allora è ignorante. Non si trovano in rete statistiche sulle circostanze in cui sia più diffuso l’uso del pane, tuttavia c’è da scommettere che nessun altro alimento sia consumato in momenti di solitudine come il pane. Nove mesi occorrono perché germogli il semino di grano destinato a trasformarsi in pane. Nove mesi come la gestazione di una mamma. Il pane è la mamma, è l’amore, il conforto, la sicurezza. Dove si finisce quando solitari si attraversano terre sconosciute e fa capo un languorino? In un panificio, of course. C’è tepore e si sa che un po’ di pane ci sazierà dalla fame e dal bisogno di tenerezza casalinga con la sua fragranza e coi suoi odori familiari. Mica è un caso, del resto, che quella famosa ditta di prodotti da forno evochi costantemente la casa nei propri spot. Si mangia pane quando si è in trasferta o quando si è indisposti perché si sa di non incorrere in alcun rischio di spiacevoli conseguenze gastrointestinali. Buono come il pane, non a caso, è il modo di dire che identifica chi è innocuo, inoffensivo, disponibile, generoso. Gli antichi egizi, che stolti non erano, si facevano chiamare mangiatori di pane e Omero definisce tale l’uomo, contrapposto al ciclope Polifemo (era un mostro gigante e non somigliava a un uomo mangiator di pane, ma a picco selvoso d’eccelsi monti, che appare isolato dagli altri). Il pane è antico come il ricordo di noi bambini che lo inzuppavamo nel latte o lo cospargevamo di dolcezza, fosse essa marmellata o nutella. Farciture di città; in campagna per i bimbi il dolce sul pane era la crosta giallognola che si formava sulla fetta quando i cristalli di zucchero si impregnavano di olio. Pane, olio e zucchero, leccornia desueta. Al bando ogni enfasi su grani e lievito, il pane è buono a prescindere. È universale e unificante: non è dei giovani o dei vecchi, dei ricchi o dei poveri, è il cibo per tutti e per tutte le occasioni. Non solo la merenda dei bambini ma anche la furtiva golosità dei grandi che, pluff, affondano licenziosamente il pezzo nel ragù bollente. Che dire della pagnotta che giunge a casa rosicchiata per la compulsiva e faticosa opera della mano che in auto si allunga mentre l’altra regge il volante? E dei cestini di pane svuotati sfrenatamente al ristorante? Il pane tentatore. Generoso anche, però. Si presta ad ogni trattamento. Tostato o essiccato per far esibire pomodoro, paté o fagioli in superbe bruschette; cotto bollito per arricchire i broccoli o esaltarsi in solitudine, giusto accompagnato da un filo d’olio a crudo e uno spicchietto d’aglio; sbriciolato per ammorbidire le golose polpette; sfarinato per rivestire gattò e timballi vari o impanare cotolette. Dei mille altri usi è d’uopo ricordare almeno la mollichetta che raccoglie l’uovo sbattuto nel piatto e finisce fritta accanto al filosc. In religione il pane è simbolo perché rappresenta ciò che l’uomo sa fare e così quando la preghiera invoca il pane quotidiano più che una celebrazione della provvidenza esprime un inno al lavoro. Come spesso accade sacro e profano si incrociano in strane coincidenze. San Sebastiano è il paese vesuviano ove risiede un’antica e tipica produzione di pane ma è anche il santo cui a Belevedere Langhe, in Piemonte, è intitolata la chiesa in cui la seconda domenica dopo Pasqua si benedicono pani, detti micun, preparati seguendo un’antica, segretissima ricetta. Si dice che i micun restino morbidi per sempre ed abbiano salvifiche proprietà. Crederci o meno è atto di fede, ciò che resiste a qualsiasi fede è la bontà del pane. Viva il pane.