di Giuseppe Giorgio

NAPOLI. Era l’anno in cui in Italia si cantava a squarciagola, “Si può dare di più” di Tozzi, Morandi & Ruggeri, ed era l’anno in cui, mentre a livello internazionale imperversava il mito di Micheal Jackson, a fare politica c’erano personaggi come la Thatcher, Reagan e Gorbaciov. Era il 1987, insomma, l’anno di “Dirty Dancing”, del film che di lì a poco, in un periodo di scarse emozioni e sogni assopiti, sarebbe diventato un sucesso mondiale. Una pellicola belligerante travestita da commedia rosa tutta basata sulla sceneggiatura di Eleanor Bergstein e sulla storia datata 1963 della diciassettenne borghese di nome Baby e del maestro di danza Johnny, che si incontrano d’estate in un villaggio vacanze. Fedele alla versione per il grande schermo. E proprio partendo dal multipremiato successo cinematografico, il cui titolo tradotto significa “Balli proibiti”, che la popolare commedia musicale da esso scaturito, in giro dal 2014, è arrivata al teatro Augusteo (nella foto di Marco Sommella una scena dello spettacolo). Così imperniando il tutto sulla trasgressione rappresentata da un certo tipo di ballo in un’America anni Sessanta dove, con Kennedy alla presidenza e Martin Luther King pronto per la sua celebre marcia, si guardava con speranza agli anni futuri, il musical, alla pari del film, né più né meno, ripropone sulle scene, trent’anni dopo, le stesse emozioni e gli stessi beffardi miraggi. Fedele alla versione per il grande schermo con Patrick Swayze e Jennifer Grey, al teatro Augusteo, dove il lavoro intitolato più precisamente “Dirty Dancing, the Classic Story on stage”, resterà in scena fino a domenica prossima, ad assumersi i ruoli dei due protagonisti sono stati i giovani performer, Sara Santostasi alle prese con la celeberrima Frances “Baby” Houseman e Giuseppe Verzicco impegnato con l’altrettanto famoso Johnny Castle. Fare tesoro dei brani di successo. Per il pubblico, uno show che partendo dalla forza del ballo e aggirandosi sulle vicende che fanno da cornice all’incontro dei due ragazzi, tra cha cha cha, valzer, mambo, foxtrot e rock & roll, evidenzia dapprima la voglia del regista Federico Bellone e della trascrittrice del testo Alice Mistroni di rimanere disciplinatamente nel solco del film e poi la vocazione di fare tesoro soprattutto dei suoi brani di successo. Tra cui, insieme a “Hungry Eyes”, “Do You Love Me?”, “Hey! Baby” e “In the Still of the Night”, a dire il vero tutti cantati in maniera non certo esaltante, il mitico pezzo portante “(I’ve Had) The Time Of My Life”. Con i dialoghi penalizzati da una fonica sicuramente non in linea con le aspettative dell’allestimento prodotto dalla Wizard, con le coreografie per l’occasione affidate a Gillian Bruce e con la solita e monotona soluzione della scene ruotanti, è restato all’intera compagnia, tra cui anche Simone Pieroni, Federica Capra, Mimmo Chianese, Claudia Cecchini, Lucia Cammalleri, Rodolfo Ciulla, Samuele Cavallo, Renato Cortesi e Russell Russell, il compito di faticare non poco per conquistare il pubblico. Il pubblico esulta a fine spettacolo. Cosa riuscita in pieno soltanto nel finale grazie alle celebri e sensuali evoluzioni di Baby e Johnny. Con l’America puritana anni Sessanta che paga le spese ancora trent’anni dopo, anche alla luce del neo moralismo firmato Trump, all’Augusteo, la famiglia Houseman e la controversa storia d’amore e di sesso tra la giovane (minorenne) Baby e il maestro di ballo un poco gigolo, continuano a scommettere sul pubblico. Lo stesso che concentrandosi soprattutto sulla bellezza fisica dei protagonisti della storia e sulla loro giovanile energia, è giunto contento alla glorificazione della frase finale. Ossia, quando, distraendosi per un attimo dai display dei loro smartphone illuminati a festa per tutto lo spettacolo, le ragazze e le donne in platea hanno esultato all’affermazione decisa e mascolina di Johnny: «Nessuno può mettere la mia donna in un angolo».