BERGAMO. Condannare Massimo Bossetti all'ergastolo e all'isolamento diurno per sei mesi. È questa la pena chiesta dal pubblico ministero di Bergamo Letizia Ruggeri nei confronti dell'uomo, accusato dell'omicidio di Yara Gambirasio che, aggiunge, "non è meritevole di nessun tipo di attenuanti, neanche generiche" sottolinea il pm nella sua requisitoria. Secondo l'accusa Bossetti "non ha fornito alternative valide che possano supportare a una sua estraneità" a un omicidio aggravato da sevizie e crudeltà, oltre che alla minore difesa della vittima.

 
Per il pubblico ministero si tratta di un omicidio doloso perché l'imputato "ha voluto cagionare le lesioni, l'ha abbandonata in quel campo, la finita, ha infierito su questa ragazza con lesioni eccessive" prima di lasciarla in un luogo in cui "era impossibile per chiunque trovarla". Nessun colpo è stato di per sé mortale ma il numero di ferite inferte a Yara "sono espressione della volontà". Il tutto aggravata dalla minorata difesa: la 13enne Yara aveva contro di lei un uomo "e non era in condizione di potersi difendere. Per quanto fosse forte lo era meno di un uomo adulto che la voleva aggredire". Per tutti questi motivi -Bossetti è anche accusato di calunnia per aver incolpato del delitto un suo ex collega- l'imputato "non è meritevole di nessun tipo di attenuante" e per questo, per l'accusa, va condannato alla pena dell'ergastolo con isolamento diurno per sei mesi.

Per il pm Bossetti sarebbe un uomo con "una tendenza sfrenata a dire bugie", attratto dal genere femminile e "incapace di sapersi trattenere nei complimenti alle donne di qualsiasi età anche giovanissime". Un delitto per cui "non c'è stato modo di poter individuare nessun tipo di movente". Per l'accusa "non si cono elementi per dire che si conoscessero, è più plausibile che l'abbia incontrata per caso, che l'abbia in qualche modo convinta a salire sul suo mezzo" è quel che è successo dopo "è solo immaginazione". Un'assenza di movente che per il pubblico ministero "non è un elemento di deficit per le indagini", dice citando come esempio il delitto che vide coinvolto, nel 2002, Roberto Paribello per l'omicidio di una sconosciuta, "non mi meraviglia che non si riesca a capire cosa gli è saltato in mente quando l'ha colpita con un corpo contundente". Due le ipotesi possibili: "O Yara è salita volontariamente" sul suo furgone "o l'ha tramortita" magari in via Morlotti senza che nessuno se ne accorgesse "e anche questo non deve sorprenderci".

Il Dna è la prova regina contro Massimo Bossetti, sostiene in aula il pm, ma ci sono altri indizi di elevata gravità. La pubblica accusa è ripartita da quello che è il tassello fondamentale dell'intero processo, il Dna che lei stessa definisce "faro" di questa indagine. Contro Bossetti non solo dunque il Dna, ma anche le celle telefoniche e le immagini catturate da tre telecamere. Elementi che "non hanno la pregnanza della traccia genetica, che è una vera prova, tutti gli altri elementi - spiega il pm - si uniscono come corollari alla prova regina e vanno letti contestualmente".

Nell'aula in cui si svolge il processo a porte chiuse si ricorda come quel 26 novembre 2010 il cellulare di Bossetti aggancia alle 17.45 la cella di Mapello (il che dimostra che l'imputato non era a casa), stessa cella che circa un'ora dopo, precisamente alle 18.49, verrà agganciata dal cellulare di Yara. Le immagini di un distributore di benzina e di una banca a pochi passi dal centro sportivo di Brembate e quelli di una ditta vicina al luogo del ritrovamento del cadavere hanno "un alto grado di compatibilità con il passaggio del furgone di Bossetti". Insomma per l'accusa Bossetti era a Bergamo e dunque potrebbe essere stato lui ad uccidere la 13enne.