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A Bruxelles non conta il regionalismo differenziato

Opinionista: 

La corsa al Parlamento europeo andrà in parallelo con l’approvazione in aula a Montecitorio del Ddl Calderoli. La discussione del testo di legge sul rafforzamento dell’autonomia regionale è iniziata lunedì 29 aprile. Si è fatta più di una forzatura al regolamento per far sì che la Lega potesse spendersi questa bandiera in campagna elettorale, pur senza poterla issare fino in cima al pennone. Un gioco di astuzia politica che mostra quanto sia scarsa la considerazione del voto degli elettori. Il cantiere aperto dovrebbe servire a convincere quelli del nord sulla prospettiva della secessione a portata di mano e quelli del Sud sul presupposto che c’è ancora spazio per cambiare il finale. Il disegno di legge nel corso del suo iter ha brutalizzato i risultati del comitato di esperti che si è occupato di trovare una soluzione al delicato tema dei Lep – Livelli Essenziali delle Prestazioni -, risolvendo la delicata questione con un rinvio. Infatti l’art. 3 rimanda a due decreti legislativi da approvare entro 24 mesi la definizione puntuale del meccanismo di garanzia della soglia di spesa costituzionalmente necessaria per tutelare i diritti civili e sociali più importanti, cioè i diritti che toccano il cuore dello Stato sociale. E nelle more congela fino all’approvazione dei Lep la concessione delle maggiori forme di autonomia alle regioni che ne facessero richiesta. Il tema qual è? Il regionalismo italiano non ha mai trovato accoglienza piena nel nostro paese. La sua previsione in Costituzione fu molto dibattuta. Alla fine impiegò oltre 20 anni per entrare in funzione. E da quel lontano giugno 1970, quando furono chiamate al voto le prime 15 regioni istituite, il decentramento amministrativo non ha dato prova di funzionalità. Il problema nel tempo è stato trattato con diverso approccio in base alle latitudini. Da Sud si è sempre reclamato un atteggiamento sbilanciato dello Stato nei confronti delle regioni del Nord. E da questo fronte si è denunciato lo Stato assistenziale, improduttivo e oneroso. Purtroppo questa impostazione culturale è difficile da scardinare. Solo le classi dirigenti vere, quelle che investono nel proprio lavoro e puntano alla propria crescita nella consapevolezza che essa passi dalla crescita del paese e dal superamento dei divari territoriali, sanno che non si esce dalla stagnazione amputando pezzi del corpo in cancrena, come suggeriva il ministro Calderoli nel 1994. La soluzione sta prima di tutto nella ricostituzione della unità nazionale dei diritti sociali e poi nella territorializzazione della gestione delle politiche economiche. Se anche per questa riorganizzazione si sono attesi oltre 20 anni, dalla modifica del titolo V del 2001, ci sarà un motivo. Non sono contro il regionalismo, ma trovo dannosa la stratificazione di livelli territoriali di potere e la sovrapposizione dei centri decisionali. Bisogna riammagliare il Paese, con interventi seri, sia dal punto di vista infrastrutturale che sociale e poi pensare ad attuare funzionalmente il decentramento amministrativo. Vorrei su questo sentire parole di verità da parte di chi si candida a rappresentarci in Europa e vorrei che i discorsi sulla uguaglianza, sulla parità dei diritti, sulla efficienza dei servizi essenziali, sulle pari opportunità di genere, generazionali e territoriali fossero brevi ma di sostanza.