Accessibilità:
-A A +A
Print Friendly, PDF & Email

Dibattito insulso sul caso Scattone

Opinionista: 

In un libro di straordinaria fortuna Rudolf von Jhiering, giurista tedesco tra i più considerati del XIX secolo, descrisse in modo magistrale la motivazione morale che giustifica la lotta per l’affermazione dei diritti individuali. Combattere per il diritto, secondo il grande rappresentante della scuola storica germanica, non significa esprimere egoisticamente la protezione d’interessi strettamente individuali ai quali esso dà voce, bensì d’un vero compito d’elevazione sociale. Lottando perché il proprio (e l’altrui) diritto trovino affermazione concreta, si opera per l’elevazione civile e morale del proprio paese, della società tutt’intera. È molto importante intendere questo stretto legame: perché quando la sensibilità per l’assolutezza dei valori giuridici svanisce, ed il diritto diviene strumento da maneggiare a piacimento, un gran passo indietro, se ne può star certi, è già stato compiuto sulla via della civiltà. La recentissima vicenda di Giovanni Scattone, condannato nel 2003 per l’omicidio colposo della studentessa Marta Russo alla Sapienza avvenuto nel maggio del 1997, sembra un’ottima testimonianza del livello di barbarie al quale è discesa la nostra società. La recentissima cronaca è nota: dopo aver vinto il concorso a cattedra nei licei, Scattone aveva goduto dei benefici della renziana buona scuola ed aveva stipulato qualche giorno fa il suo contratto a tempo indeterminato per l’insegnamento di psicologia. Credo ad iniziativa dei familiari della disgraziata studentessa, ancora evidentemente carichi di risentimento per la terribile esperienza vissuta, s’è aperto un insulso dibattito mediatico ed un pesantissimo pressing nei confronti del docente, culminato in quel distillato d’ipocrisia del Ministro dell’istruzione che è stata la sua dichiarazione: la Giannini sarebbe tranquilla se sua figlia per insegnante avesse Scattone ma il problema è tutto di coscienza e riguarda interamente quest’ultimo. Il quale, dopo alcuni giorni, evidentemente sopraffatto dai condizionamenti e nel presumibile tentativo di proteggere la propria esistenza, ha deciso di dimettersi ritornando nell’oblio. Giovanni Scattone, come tutti sanno, è stato condannato con un’incredibile sentenza che, non avendo rinvenuto alcun movente per giustificare l’omicidio – e dopo le più fantasiose ipotesi di stampa e media vari – l’ha ritenuto responsabile a titolo di colpa cosciente: sorvolando su sottili disquisizioni giuridiche, in sostanza egli sarebbe stato su quella finestra a giocherellare con una pistola (mai rinvenuta) nonostante ben sapesse che per fatalità sarebbe potuto partire un colpo e stramazzare qualcuno. Perché stesse lì ad armeggiare non è dato conoscere, come tante altre cose di quell’incredibile processo, ma insomma il verdetto fu questo. Egli ha silenziosamente scontato la pena, benché lui ed il suo preteso sodale Salvatore Ferraro, si siano dichiarati sempre innocenti ed ancora oggi cerchino di dimostrarlo. Si dice: questo è il diritto e questi sono i processi. Verissimo: per vivere in una società, c’è sempre bisogno che ad un certo qual punto vi sia un’organizzazione chiamata a metter la parola fine. È una necessità e per questo ci sono giudici e sentenze, anche se spesso poco credibili. Ma d’una necessità si tratta, che è cosa ben diversa dalla verità: va presa per tale, per verità, ma per verità giuridica o processuale, non per verità storica. Ed in quanto tale va trattata. Cosicché, se al diritto si riconosce un senso, è ad esso che bisogna lasciar regolare le cose, quando si tratti di suoi prodotti. E se dopo avere scontato la condanna – che è un prodotto squisitamente giuridico – la Corte di cassazione ha stabilito che non dovessero seguire conseguenze pregiudizievoli ulteriori: insomma che il condannato riacquistasse tutti i suoi diritti politici e civili, è segno d’altissima inciviltà, che andrebbe anche sanzionata, continuare a perseguitare questa persona, trasformando una condanna giudiziaria – pur sempre frutto dell’umana fallibilità – nell’interdictio aqua et igni, che la legge delle XII tavole comminava quando levava a vita la cittadinanza a romani macchiatisi di gravi delitti. Questo si chiama barbarie: non riconoscere il valore delle leggi ovvero riconoscerlo solo quando aggrada e disconoscerlo quando torni incomodo, magari anche per ipocrita moralismo o per incontrollati livori. Se l’Italia fosse stato un paese civile, una simile sconcezza non sarebbe passata e vi sarebbero state ben diverse reazioni delle élites. Ma l’Italia è un paese che pare aver perso l’orientamento proprio d’una nazione incivilita, lasciandosi guidare dall’ignoranza, dalla prevaricazione, da sentimentalismi più o meno sinceri, insomma dalla ventata del momento.