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Gli abusi di potere di qualche magistrato

Opinionista: 

Ogni tanto qualcuno scopre l’acqua calda. Non ci voleva certo l’affare Consip a mettere allo scoperto un dato che ormai da decenni (dall’epoca di “mani pulite”) ha caratterizzato e continua a caratterizzare lo scenario politico italiano Ora si scopre che Renzi non c’entra nulla con le accuse mossegli su eventuali atti configurabili come traffico di influenze e che si tratterebbe di un tentativo – ordito da settori delicatissimi dello Stato, magistratura e organi inquirenti – di delegittimare l’ex presidente del Consiglio. Mi meraviglia che qualcuno continui a meravigliarsi rispetto a un fenomeno ricorrente del ciclo storico apertosi con la crisi irreversibile della Prima Repubblica: mi riferisco alla possibilità che un presidente del Consiglio, un ministro, un uomo politico, un dirigente di partito vengano disarcionati non in una competizione elettorale alla luce del sole, ma negli oscuri bassifondi delle trame, delle intercettazioni, degli abusi d’ufficio e di potere di qualche magistrato. Con questo non voglio certo negare le profonde storture che pezzi non irrilevanti della politica italiana hanno provocato quando hanno ridotto la funzione pubblica di quelli che una volta si chiamavano “servitori dello Stato” a uno strumento di mera ricerca e mantenimento del potere con qualsiasi mezzo, anche quello di calpestare le leggi e gli articoli del codice penale. Comunque non può che essere accolta con favore la notizia dell’estraneità di Renzi nell’affare Consip, anche se - come ha osservato Mario Calabresi su “la Repubblica” – resta il fatto di aver inserito al vertice di una struttura che gestisce i più grandi appalti pubblici d’Italia figure di sua fiducia. Ciò non attenua certo la gravità dell’episodio e cioè che pezzi deviati dello Stato – in coerenza con una lunga scia di episodi chiave della nostra storia – possano, ora per indegni interessi personali, ora per un furore giacobino e ideologico (mi riferisco a qualche giudice che crede di incarnare il duro e puro Robespierre), minare le basi stesse della nostra tradizione democratica. Qualcuno – non so con quanta ingenuità o con quanta consapevolezza – auspica che la giusta sanzione per reati clientelari e lottizzatori compiuti dai politici debba essere il giudizio di condanna della pubblica opinione e dunque il mancato consenso degli elettori. Ma in tal modo si lascia pressoché intatto il potere corruttivo della mala politica che ha tutto lo spazio ancora disponibile per fondare il proprio successo elettorale sulla corruzione e le promesse. La verità è che nessuno ha finora – specialmente a livello di questo governo e di quelli precedenti – voluto condurre in porto tutte le riforme della giustizia lasciate in letargo nelle aule parlamentari. È vero ad esempio che la riforma penale è stata approvata, ma con uno strascico – i decreti e le deleghe che la lascerà ancora a lungo inattuata rimessi al governo - e, dunque, come ha osservato un valente giurista Giovanni Verde, affidata ai magistrati che affollano, in qualità di collaboratori e funzionari, gli uffici del ministero. Ma questo è solo un esempio, anche perché il problema è ben più grande e complesso. «Il nostro senso civico – ha giustamente osservato ancora Verde, già vicepresidente del Csm - è modesto, non siamo rispettosi delle regole e abbiamo qualche propensione all’illegalità. E tuttavia abbiamo un legislatore che ci asfissia e ci avviluppa con un reticolato di regole quale non esiste in altri Paesi e abbiamo controllori arcigni che pretendono da noi comportamenti virtuosi, che spesso hanno come metro di valutazione più che le leggi i principi dell’etica. Strabismo. Schizofrenia. Se non curiamo queste malattie non saremo in grado di fare alcun intervento in tema di giustizia che non sia peggiorativo».