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Gli spot che parlano alle nostre coscienze

Opinionista: 

Nel Paese è in corso, ormai da mesi, silenziosamente, un articolato dibattito sulla pubblicità del dolore. Valutando se le sofferenze di migliaia di bambini e le immagini strazianti che, ormai, ci vengono proposte ad ogni ora, tra un video che reclamizza un dentifricio ed un altro che ci parla delle proprietà dell’ultimo deodorante, siano lecite o meno, se questa spettacolarizzazione della sofferenza sia o meno opportuna. Le normative, in queste senso, appaiono piuttosto chiare. L’articolo 46 del Codice di Autodisciplina Pubblicitaria vieta palesemente alla pubblicità sociale di “sfruttare indebitamente la miseria umana, nuocendo alla dignità della persona, né ricorrere a richiami scioccanti tali da ingenerare ingiustamente allarmismi, sentimenti di paura e di grave turbamento”. Ma di fronte ad immagini che possono, ormai, arrivare all’opinione pubblica attraverso mille mezzi tecnologici, a pubblicitari sempre più disincantati è ancora realistico parlare di norme di autodisciplina, di un’etica che appare, improvvisamente, scomparsa, annientata, dissolta? Le campagne di comunicazione sociale di organizzazioni non governative, di associazioni umanitarie vengono oggi messe in onda senza tutele di alcun tipo, anche in orari di grande ascolto. Siamo emotivamente aggrediti da un marketing violento che punta l’indice contro di te e ti responsabilizza, sottolineando enfaticamente che se non paghi, se non offri il tuo contributo questo bambino si aggraverà, starà male, magari morirà. E tu sei lì, a combattere con i tuoi pensieri, a valutare se fare o meno quell’sms, a considerare la serietà di questa o quella organizzazione umanitaria, perché, pur riconoscendo la correttezza di tante sigle, ogni tanto, anche gli euro prendono altre strade. Ma, al di là di queste considerazioni, si ha chiara la sensazione di una società che vuole spesso farti aprire gli occhi non per motivi umanitari ma solo ed esclusivamente per coinvolgerti in una pesca di beneficienza che ha, come unico e prevalente scopo la raccolta dei fondi. L’antico tabù della malattia, l’intoccabilità della morte sono, ormai, materiale d’archivio. Un passo avanti o un tragico indietreggiare? Affiora, in questo contesto, un panorama nuovo, una pubblicità del dolore cui è stata impressa, probabilmente, una forte accelerazione psicologica anche dalle drammatiche immagini del povero Aylan, il bambino siriano affogato nel Mediterraneo, le cui sequenze di morte sulla battigia hanno fatto il giro del mondo e son servite, forse, più di qualsiasi intervento umanitario, a far comprendere il dramma dei migranti. Ecco perché, ormai, nella confusa centrifuga della pubblicità, finisce di tutto. Dal bucato, alla poltrona, dall’auto alla triste pornografia che si muove tra la vita e la morte. E noi, da spettatori assenti, inglobiamo ogni cosa, con una tragica filosofia d’inerzia, guardando ancora all’Africa come un Continente lontano, convinti, ormai, che tutto quel che ci circonda sia, paradossalmente, uguale a se stesso.