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Il referendum di dicembre e la vera posta in gioco

Opinionista: 

Una corretta analisi del testo di legge sottoposto a referendum non può prescindere dall’individuazione delle fonti che l’hanno ispirato, e che sostengono la vittoria del Sì. Nel giugno 2013, un report della JP Morgan - banca d’affari ritenuta dal governo americano responsabile della crisi dei derivati e dei mutui spazzatura - evidenziava che le “Costituzioni del Sud Europa dovevano essere modificate perché inadatti ai piani di rigore ed austerity cui il nuovo ordine neoliberista mondiale sta impiccando i destini delle nazioni sovrane”. E così la Costituzione italiana, che fino ad allora era ritenuta la più bella del mondo, è stata radicalmente stravolta. 47 articoli su 139 sono stati profondamente modificati. I sostenitori della “schiforma” ingannevolmente rivendicano il perseguimento di scopi suggestivi: semplificazione dei meccanismi decisionali, stabilità dei governi, diminuzione dei parlamentari e dei costi della politica. I veri obiettivi sono altri. Per individuarne la portata occorre tenere conto anche della legge di riforma del sistema elettorale della Camera: approvata nel 2015 ma, non a caso, entrata in vigore solo nel luglio 2016. Vero è che la riforma del sistema elettorale e quella costituzionale sono, tra loro, intimamente interconnesse. In entrambi i casi l’obbiettivo è il medesimo: mutilare l’esercizio della sovranità nazionale, contraendo i margini di effettiva partecipazione popolare alla vita della nazione. Il nuovo sistema elettorale per la Camera - cosiddetto Italicum - prevede, infatti, l’attribuzione del premio di maggioranza alla lista che ottiene più voti. La maggioranza dei deputati potrà essere, così, assegnata anche ad un partito minoritario nel Paese, non essendo prevista alcuna soglia minima. In tal modo anche la funzione legislativa verrà a concentrarsi nella mani dell’esecutivo. Si tratta di un sistema elettorale, comunque iniquo, per nulla dissimile al porcellum già dichiarato incostituzionale. Si persevera, infatti, nella stessa nefasta logica di vulnerare la rappresentatività degli eletti sottraendo agli elettori la scelta dei capilista bloccati. Costoro, alla Camera, risulteranno assegnatari degli scranni parlamentari solo in quanto designati dai segretari di partito all’atto della formazione delle liste. Con la legge di revisione costituzionale, sottoposta a referendum, l’attuale Senato, invece, non sarà abolito: si trasformerà soltanto in un organo inefficiente, i cui componenti saranno chiamati a svolgere cumulativamente una pluralità di impegnativi incarichi istituzionali (senatori, consiglieri, regionali e sindaci). Anche tale ramo del Parlamento non sarà più espressione diretta della sovranità popolare! Il risultato sostanziale dei combinati meccanismi sarà quello di costituzionalizzare il principio secondo il quale la prerogativa di scegliere l’eletto non apparterrà più all’elettore. Questo è l’aspetto della riforma che, in caso di approvazione referendaria, segnerebbe il definitivo passaggio dalla democrazia rappresentativa a quella d’investitura! La vittoria del No al referendum costituzionale deve riconoscersi, allora, necessaria a sventare il nefasto passaggio da una democrazia fondata sulla rappresentatività ad un regime costituzionalmente fondato sulla nomenclatura. Lo svuotamento della sovranità nazionale, però, in caso di approvazione della riforma costituzionale, giungerebbe a perfezionamento attraverso un percorso più insidioso, anche in quanto normativamente meno evidente nel testo di legge. Vero è che l’effetto aggiuntivo più eclatante della riforma consiste nella costituzionalizzazione dell’obbligo dell’Italia all’attuazione della normativa dell’Unione Europea. Tale precetto è stato introdotto nel nuovo assetto degli articoli 55 e 70 del testo di revisione costituzionale. La più importante funzione sovrana dello stato (quella legislativa), in caso di approvazione del referendum, risulterebbe definitivamente gravata dall’obbligo, di rango costituzionale, di attuare i diktat comunitari. Tale principio ne postula un altro: l’appartenenza definitiva dell’Italia alla Unione Europea. L’Italia, infatti, non potrebbe non appartenere alla UE altrimenti il Parlamento non sarebbe in grado di adempiere ad un suo dovere, nel frattempo, costituzionalizzato. Conseguentemente la Corte Costituzionale non potrà sindacare alcuna aberrazione promanante dalla UE. Tale modifica renderà il diritto comunitario comunque prevalente sulla legislazione interna. Dopo la costituzionalizzazione del pareggio di bilancio, già imposta dalla UE nel 2012, la sottoposizione ai diktat della UE assurgerebbe ad obbligo di rango costituzionale. Occorre essere consapevoli, anche sotto tale profilo, della vera posta in gioco. All’indomani di una malaugurata vittoria del Sì, allorquando intendessimo abbandonare l’UE, saremmo costretti ad intervenire prima per via costituzionale per abrogare il vincolo esterno inserito in Costituzione e, solo successivamente, si potrebbe deliberarne l’uscita con legge ordinaria. Qualsiasi iniziativa, legislativa o referendaria, volta infatti ad ottenere l’uscita dell’Italia dalla UE, in ragione dell’obbligo costituzionale di dare attuazione al diritto UE, sarebbe inammissibile in quanto costituzionalmente illegittima. La sera del 4 dicembre sapremo cosa resta in Italia della sovranità popolare.