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La differenziazione delle competenze

Opinionista: 

È dalla scorsa settimana che il tenore del dibattito sulla cosiddetta differenziazione delle competenze tra regioni d’Italia sta salendo di tono ed acquistando dimensione politica. Il tema è ben noto: tre regioni – Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna – hanno chiesto, ai sensi dell’articolo 116 della Costituzione, di differenziare le loro competenze in materie di notevole rilievo sociale: sanità, istruzione, trasporti, ambiente, ed altro ancora dovrebbero essere pressoché totalmente rimesse alla legislazione regionale. Ovviamente, anche le risorse necessarie alla gestione delle accresciute competenze andrebbero proporzionalmente incrementate, soprattutto attraverso il trattenimento in sede locale di quanto drenato attraverso le imposte. Il tutto, senza che siano mai stati definiti i cosiddetti Lep, vale a dire o livelli essenziali di prestazioni che, nei diversi settori interessati dall’attribuzione delle competenze aggiuntive alle regioni, andrebbero assicurati ad ogni cittadino sul suolo della Repubblica italiana. La cosa, io credo, è seria, sempre per quanto serie possano essere le vicende peninsulari. Ed è seria, perché i suoi contenuti politici vanno ben al di là dei termini in cui la questione si presenta sul piano giuridico. Su quest’ultimo, è apparentemente banale: si tratta d’una distribuzione differenziata di competenze, secondo un percorso costituzionalmente previsto sin dal 2001. E non m’è parso sia stato notato che in Italia la differenziazione tra le competenze esiste addirittura da prima che la Costituzione fosse approvata, avendola conseguita in precedenza la regione Sicilia, seguita poi da altre quattro consorelle privilegiate (non si è mai compreso bene perché, almeno per talune), la Sardegna, il Friuli Venezia Giulia, la Valle d’Aosta, il Trentino Alto Adige. Eppure questa lunga vicenda di differenziazione regionale non ha mai dato luogo a significative reazioni se non, di tanto in tanto, per gli sperperi siciliani, davvero scandalosi e causa non ultima dell’attuale situazione d’insofferenza. Ma oggi, la richiesta da parte di tre potenti ed economicamente solidissime regioni italiane desta gravi preoccupazioni e sta creando conseguenze forti. Il Presidente della Campania, Vincenzo De Luca, è giunto a porre la questione di un nuovo Risorgimento nazionale. La cosa si spiega in modo relativamente agevole. La creazione di regioni a statuto speciale all’indomani della caduta del Fascismo aveva una funzione compensativa e conciliativa: realtà locali che si credevano portatrici d’identità peculiari soprattutto per le rispettive storie e per la collocazione geografica ottennero nel momento costituente, pieno d’idealità e fermenti, un riconoscimento che aveva lo scopo di valorizzarle ed arruolarle nella ricostruzione dello Stato su basi coesive. Oggi, invece la richiesta assume significato profondamente diverso. Dopo decenni di pervicace distruzione dei valori comuni, d’instancabile discredito delle istituzioni, di programmata coltivazione del divario tra le condizioni economiche e culturali del Mezzogiorno e quelle del settentrione d’Italia, dopo una desertificazione dell’istruzione e della civica educazione perseguita con impegno e senza posa, dopo l’azione becera e volgare di alcune forze politiche che hanno saputo ben cavalcare queste condizioni di destabilizzazione del Paese; dopo tutto ciò, è evidente che la richiesta di alcune ricche regioni di creare un ambiente intorno a sé di distinta autonomia non possa non assumere un significato sul piano politico ben connotato ed univoco. Sul piano politico assume il significato di formalizzazione giuridica delle due Italie, dell’abbandono del disegno unitario o, meglio, della presa d’atto a livello costituzionale che quanto s’è avviato nel 1860, in modi trasversali, tutt’altro che limpidi e nell’assenza d’una genuina convinzione di valorizzazione dell’intero Stivale verso un disegno comune, non solo non è stato raggiunto, ma non s’intende nemmeno più raggiungerlo: insomma, una rinuncia, sulla cui base dovrebbe contraddittoriamente proseguire l’impresa comune. Ed un federalismo che nasce dall’unità è notoriamente un qualcosa d’impensabile. Chi conosce il funzionamento delle regole, soprattutto di quelle costituzionali, sa bene anche che al riparo di esse – oggi dell’articolo 116 – son potuti nascere regimi quali quello nazista; figurarsi se non può andare in pezzi un precarissimo disegno unitario, che nemmeno sino qui è riuscito a creare, fuor dalle vene retoriche, una cultura comune: cioè a dire intendersi sul modo di comportarsi, di lavorare, di far le cose nel generale interesse. E perciò, le preoccupazioni che vanno esprimendosi sono tutt’altro che retoriche, penso guardino lontano, forse in molti anche senza piena consapevolezza, ma con molta intuizione e molto sensatamente.