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La scuola italiana distrutta dalla politica

Opinionista: 

C’è chi addirittura s’azzarda a minimizzare. Quanto sta accadendo nelle scuole italiane sarebbe un po’ il frutto della solita autoproduzione della notizia. Si verifica un fatto eclatante, dunque qualsivoglia minima cosa ad esso somigli viene amplificata perché per ciò solo fa notizia, per il fatto solo del suo ripetersi. Cosi, che un insegnante venga accoltellato, che ad un altro si minacci lo scioglimento nell’acido; che ad un altro ancora si chieda poco cordialmente d’inginocchiarsi davanti all’alunno insoddisfatto del voto assegnato e che tutto ciò – e molto altro – avvenga riscuotendo gran successo nelle scolaresche (se ancora sia lecito in tal modo nominarle) sarebbe del tutto normale. Come normale sarebbe anche che – ormai quasi una ritualità – genitori aggrediscano docenti, rei d’aver valutato in modo poco lusinghiero i loro amati ed indifesi pargoletti; o che, non appena sia presentato un esposto contro un docente o un dirigente scolastico, questi sia allegato a grave sospetto, con la sua inutile parola al cospetto di quella, salda come una torre, dell’accusatore. Tutto normale, segno dei tempi. Segno dei tempi, non dubito. Normale, non saprei, almeno se al termine s’assegni il significato che ha sempre avuto: condotta corrispondente ai canoni costituiti e soprattutto compatibili con la vita cooperativa. Certo, anche le leggi mutano, ed è ovvio che sia. Il problema è che dovrebbero evolvere in modo compatibile, proprio con un’esistenza cooperativa ed orientata complessivamente in termini costruttivi. Di sicuro non c’è un’unica risposta a quanto si sta verificando. Di sicuro, ad esempio, molto conta per la perdita d’autorità dell’istituzione scolastica, la costante possibilità di evasione dai canali istituzionali di trasmissione della cultura. Il che non sarebbe affatto un male in sé, dato che le accademie e le scuole storicamente non hanno brillato per la trasmissione del senso critico, e quindi del fornire a ciascuno i mezzi per costruirsi convinzioni sulla base d’autonomi e consapevoli processi di pensiero. Il problema è che i social – così sono definite le principali fonti d’acquisizione di conoscenze per la gran massa dei giovani – sono preda dell’imbecillità, d’insulsi personaggi che affermando vere e proprie sconcezze del pensiero, reclutano e producono mandrie d’idioti. Ciò detto, a me non pare questo il principale motivo dell’attuale disastro. Io credo che le ragioni per le quali l’istruzione pubblica stia precipitando in un irrecuperabile gorgo – al quale vorrebbero sfuggire i migliori elementi tra i docenti – è stata la politica dell’istruzione condotta in Italia, non da oggi, ma almeno dall’inizio degli anni Sessanta nelle istituzioni elementari e medie, per poi passare all’Università dall’inizio degli Ottanta. La Democrazia Cristiana, con una serie d’indicibili norme, fece del Ministero della Pubblica Istruzione il proprio ufficio, non disinteressato, di collocamento: in un fatto, a concorsi rigorosi e seri, si sostituì il canale degli “incarichi e supplenze”, quale percorso privilegiato d’accesso all’insegnamento. Non è necessario indugiare sul disastro che n’è seguito. A ciò s’è accompagnata – non poteva essere diversamente – una politica retributiva che vede un professore di liceo stipendiato in ingresso con 1/3 d’un magistrato in pari posizione; per poi doversi munire di potente cannocchiale per seguirne nel prosieguo il trattamento economico con l’avanzare dell’anzianità. In pratica: s’è preferito il manganello al libro, per formare il cittadino. L’avversato fascismo associava libro e moschetto nella gerarchia dello Stato; e poneva il professore universitario al vertice dei gradi, sotto solo al Primo Presidente della Corte di cassazione ed al Capo di Stato Maggiore. Non voglio farla lunga, e triste. Tutto da decenni cospira per la proletarizzazione del docente, per l’irrilevanza della qualità della sua cultura, autorevolezza (e conseguente autorità), finezza di pensiero, tratti tutti sostituiti da corsi di formazione (spesso fasulli e fonti di scandali), aggiornamento, qualificazione, forme perfette a certificare conoscenze, del tutto inutili a crearle. S’aggiunga la disaffezione che da tutto quanto ciò deriva, e si comprende l’animo con il quale il docente oggi s’introduce (non, entra a testa alta) nelle aule – scolastiche o universitarie che siano. Ed ancora un passo richiedo all’intuizione del lettore: quanto un soggetto del genere – ovviamente, considerato nelle medie – potrà essere attraente per il discente? Ancor più, vorrà essere attraente? Quanto vorrà trasmettere il senso della civiltà attraverso il suo insegnamento, trasmettere cioè il senso della responsabilità che ciascuno, quale che sia il ruolo disimpegnato, ha rispetto alla comunità in cui vive e, soprattutto, grazie alla quale vive? Spero d’essermi spiegato, da docente d’una qualche ormai non trascurabile esperienza, pur essendomi infine affidato al punto interrogativo. Che si apre sul vuoto.