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Magistratura, coacervo di enormi difetti

Opinionista: 

Chi per avventura avesse seguito nel tempo le mie considerazioni sulla vita della magistratura in Italia, saprebbe che il giudizio che ne ho, è a dir poco severo. Non l’affermo per autocitarmi, Dio me ne guardi; bensì per smentirmi, non ho ben visto. Perché, per quanto la mia considerazione dell’ordine giudiziario nostrano sia assai scarsa – troppi intrighi, troppe deviazioni, poca efficienza, eccesso d’autoreferenzialità, nessuna considerazione per imputati e parti, convinzione del proprio esser nel giusto, sempre e comunque: insomma, un coacervo d’enormi difetti che, messo insieme, non può produrre alcunché d’istituzionalmente accettabile. Per quanto il giudizio fosse molto negativo, dunque, per quanto le narrazioni del Palamara l’avessero fortificato nelle sue già coltivate basi, ancora dovevo veder molto d’altro. L’ultima, deplorevole storia, ridotta al suo scheletro socio-politico, è in ciò. Un pubblico ministero del Tribunale di Milano, raccogliendo dichiarazioni dell’avvocato, faccendiere e plurindagato Piero Amara – in forza delle quali sono stati già arrestati o reputazionalmente rovinati avvocati, imprenditori, altissimi magistrati, funzionari dello Stato – apprende che ci sarebbe, molto attiva in quel della solita Capitale tuttofare, una sorta di loggia massonica, chiamata Ungheria parrebbe dall’intitolazione della piazza in cui i sodali, presso l’abitazione d’un alto magistrato, solevano riunirsi, loggia o balconcino capace d’indirizzare indagini, far vincere cause, distribuire affari milionari a professionisti. Insomma, un centro di potere ammodo e deviato comme il faut. Dunque, il prefato pubblico ministero, il dr. Paolo Storari, in forza niente di meno che presso la temuta Procura della Repubblica di Milano, vorrebbe indagare. Sembra però che i suoi capi meneghini gliel’impediscano. Ed allora cosa pensa di fare? Evidentemente malfidente delle istituzioni dello Stato - avrebbe potuto esporre nelle debite forme la cosa, a dirne una, alla Procura Generale presso la locale Corte d’appello o al Csm - consegna copia di questi verbali, o almeno qualcosa che ne riproduce il contenuto, in tutto segreto al suo amico personale (o riferimento fiduciario), tal Pier Camillo Davigo, all’epoca per avventura anche componente del Csm tuttora all’opera. Ed avrebbe preferito la via traversa, per superare la supposta resistenza del suo Procuratore Capo, il dr. Greco. Il Davigo – paladino della legalità formale, almeno a quel che se ne sapeva sino a ieri – cosa fa? Evidentemente malfidente anch’egli delle istituzioni dello Stato delle quali era lui stesso pezzo forte, avverte “chi di dovere” – come solo oggi allusivamente dice (strano linguaggio per un uomo delle istituzioni) – sempre tutto in gran segreto: anche perché sembra che un componente e suo collega nel Csm, il dr. Sebastiano Ardita (eletto, guarda un po’ il diavolo dove va a metter la coda, proprio nella corrente del Davigo), sia additato in quei verbali come sodale della loggia, o qualcosa del genere. Ed il “chi di dovere” avvertito – taluni opinano essere il Presidente della Repubblica in persona, contattato direttamente dal Davigo o attraverso l’ineffabile vicepresidente del Csm, l’avvocato Pd David Ermini – cosa fa? Boh, a quel che se ne sa, un bel nulla. La cosa era arrivata pure ai giornali: perché tal dr.ssa Contraffatto, assistente al Csm del Davigo, sembra che, visto il disinteresse generale, abbia inviato lo scottante incarto alla Repubblica ed al Fatto Quotidiano: ma i due giornali, animati stavolta da singolare acribia, hanno omesso di dare in pasto la notizia all’opinione pubblica, forse ispirati dallo stesso criterio selettivo della Procura di Milano che, a stare allo Storari, non avrebbe voluto saperne del pasticciaccio. La verità, però, prima o poi vien fuori ed ora il maldestro è fatto. Cosa c’è da dire? C’è da tremare, non da dire: se è vero com’è vero che nessuno si fida di nessuno, che i rappresentanti della giurisdizione – dell’organizzazione che nello Stato starebbe lì a garantire il rispetto rigoroso delle regole e la ricerca della verità – non si fidano con schietta reciprocanza l’uno dell’altro; se è vero com’è vero che tutto si muove attraverso passaggi segreti, nelle stanze che all’opposto dovrebbero essere irradiate da luce solare, mancando la quale la fiducia dei cittadini precipita al di sotto dello zero e di parecchie leghe. Che razza di Stato sarà mai questo? Mi rivolgo un’altra domanda: immaginiamo (non è poi difficile) che un tale sia di questi giorni vessato dalla criminalità organizzata, magari strangolato dallo strozzinaggio: sarà invogliato costui, ove mai abbia letto di codeste miserrime vicende, a rivolgersi confidente all’autorità giudiziaria? O, se soggetto appena un tanto riflessivo, non si porrà il problema di tenerla alla larga, dato che dell’autorità giudiziaria non si fida nemmeno l’autorità giudiziaria (e forse neanche il Presidente della Repubblica)? Risposta non disagevole. Le istituzioni italiane stanno vivendo un autentico collasso di credibilità: e poiché una società si regge – se si regge – nei propri simboli: nel credere, fondamentalmente, che quando un giudice pronuncia, sta affermando il diritto e lo sta facendo in nome dello Stato di cui è l’eminente rappresentante; che se un professore parla dalla cattedra, abbia la competenza per farlo; e via dicendo per ogni altro organo del pubblico potere. Quando – avrebbe scritto il grande Tacito – il seme pernicioso della diffidenza e della sedizione s’insinua nelle istituzioni è evidente che lo Stato non c’è più ed ognuno fa da sé. Da noi si spiega: troppo s’è creduto (finto di credere) nella neutralità degli apparati burocratici, coprendo con logora retorica la realtà d’inefficienze, faide, trame oscure, malaffare per ogni dove. Ed ora siamo davvero nei guai. Commissione d’inchiesta? Sarebbe il minimo ma, a mio giudizio, servirebbe a poco, con l’attuale Parlamento, nei guai anch’esso fino al collo.