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Malcostume dei furbetti: soluzione impossibile

Opinionista: 

Quello dei ventitré impiegati su quaranta che nel comune di Ficarra in provincia di Messina facevano il loro comodo durante l’orario di lavoro, allontanandosi dall’ufficio per sbrigare personali faccende, non è che l’ultimo d’una serie interminata d’episodi che viene registrata dalle cronache giudiziarie del nostro scombiccherato Paese. Con cadenza ciclica veniamo portati a conoscenza che da Regioni, Provincie, Comuni, aziende pubbliche, ospedali e giù di lì, dalle Alpi ai Peloritani, è un continuo stillicidio di dipendenti che sciamano dagli uffici; e non di qualche sparuto impiegato infedele, ma in realtà d’interi plotoni di dipendenti che in luogo di prestare la propria opera lavorativa vanno in giro per città e campagne a spicciare affari loro. Com’è possibile tutto ciò? Teniamo conto che all’interno d’ogni amministrazione, oltre ai controlli sui cartellini, per legge sono previsti i cosiddetti nuclei di valutazione o analoghi organismi, i quali hanno il compito di giudicare il rendimento degli impiegati e l’andamento degli uffici. Devono cioè annualmente valutare le performance dei lavoratori, se così li si può definire, assegnando precisi punteggi, formulando rilievi, indicando provvedimenti da assumere. Sarebbe interessante, ad esempio, sapere come questi organismi si siano espressi per il comune di Ficarra o, per citarne un altro, per il comune di San Remo. Perché è chiaro che una simile interpretazione degli obblighi lavorativi non dovrebbe poter rimanere irriflessa in termini di rendimento, di andamento degli uffici e, in ultima analisi, di qualità dei servizi erogati. A meno di ritenere che la presenza o l’assenza del dipendente pubblico sia del tutto indifferente al funzionamento delle amministrazioni. La verità è che il malcostume impera nell’intero comparto del lavoro pubblico. Da tanti, troppi anni buona parte del lavoro presso le pubbliche amministrazioni, centrali o locali che siano, è interpretato come una sine cura da parte dei dipendenti che vi operano. Per tanti di costoro, recarsi al lavoro non vuol dire attendere alle proprie mansioni, ma al più concedere alle stanze la propria indiscreta presenza nell’intesa però che nessuno abbia a disturbare. Esistono, è inutile dirlo, molti dipendenti solerti ma, almeno per quella che è la mia personale esperienza consolidata da molti dati di cronaca, non sono affatto la maggioranza. Quella del pubblico impiegato non è un’etica del lavoro, bensì della sistemazione, dell’acquisizione d’una rendita vitalizia che, in quanto tale, non può esigere alcuna controprestazione. È su questa base di carattere culturale, prim’ancora che d’indisciplina personale, che i fenomeni come quelli del vero e proprio assenteismo – che si distingue solo per maggiore visibilità formale dal semplice scansare fatica quando si è in ufficio – possono dare una tanto diffusa testimonianza di sé per ogni luogo d’Italia e per ogni tipologia di dipendenza. Il fatto, assai diffuso ed inveterato, che si timbri il cartellino e poi ci s’allontani dall’ufficio, magari solo per intrattenersi in amichevoli conversazioni al bar dell’angolo per lunghe pause di svago dal noioso far nulla in ufficio, è un altro uso molto praticato nei pubblici uffici. E visto con occhio di comprensione non solo, intuibilmente, dal titolare dell’esercizio frequentato, ma un po’ da tutti, colleghi e cittadini perché, in fin dei conti si sa che il dipendente pubblico ha le sue caratteristiche, gode delle sue libertà. Nel Paese dove la ‘famiglia’ continua ad essere un potente strumento per accedere alle (ed avanzare nelle) carriere, è chiaro che poi è la ‘comprensione’ e non la disciplina a far da guida nelle condotte individuali e collettive. Siamo in epoca di populismi, promesse reboanti, radicali riforme proclamate per ogni dove. La base d’ogni riforma è però nella formazione culturale d’una Nazione, che tale dovrebbe sentirsi ed avvertire quindi il senso collettivo della responsabilità. Un senso da trasmettere in ogni atto, a partire proprio dal funzionamento dello Stato, che con la sua efficienza e capacità d’incidere sui processi sociali, dovrebbe mostrare l’esistenza d’una direzione nell’organizzazione delle risorse e nel perseguimento degli obiettivi comuni. Uno Stato con l’Amministrazione in pezzi fallisce già in partenza la sua missione, diventa maestro di disaffezione per le istituzioni; sì, capiterà pure che di tanto in tanto qualche assenteista venga raggiunto dal rigore della legge (vediamo quanti ne verranno licenziati con la legge Madia); ma non di certo si risolve in questo modo, bensì si risolverà solo – e quindi, suppongo, mai – quando si creerà affezione per la dimensione pubblica e tutti sapranno che, onorandola, daranno dignità a loro stessi ed opereranno per la collettività e per il futuro. Pura utopia.