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Riina e l’inutilità di certi processi

Opinionista: 

La Corte d’Assise di Firenze ha assolto martedì scorso il capo mafioso Totò Riina “per non aver commesso il fatto” dall’accusa di essere stato il mandante dell’attentato dinamitardo al Rapido 904, che il 23 dicembre 1984 causò la morte di 17 persone di ogni sesso ed età, tra le quali un bambino di 4 anni e una bambina di 9 anni. La bomba scoppiò nella galleria ferroviaria che si trova nei pressi della stazione di Vernio, in provincia di Firenze. La strage è passata alla storia delle cronache italiane come la prima di stampo terroristico mafioso. La Corte di Assise di Firenze, il 25 febbraio 1989, condannò alla pena dell'ergastolo Pippo Calò, il cosìddetto cassiere della mafia siciliana, e i suoi collaboratori Guido Cercola, Alfonso Galeota, Giulio Pirozzi e Giuseppe Misso, con l'accusa di strage. Inoltre, condannò a 28 anni di detenzione Franco Di Agostino e a 25 anni Friedrich Schaudinn, artificiere tedesco. Dopo numerosi, successivi processi la 5ª sezione penale della Suprema Corte di Cassazione il 24 novembre 1992 confermò le sentenze dei Tribunali e delle Corti di Appello, riconoscendo la "matrice terroristico-mafiosa" della strage. E sembrò che giustizia fosse stata fatta. Ma diciannove anni dopo la Direzione Distrettuale Antimafia di Napoli emise il 27 aprile 2011 un'ordinanza di custodia cautelare nei confronti di Totò Riina, convinta che l'attentato al Rapido 904 “era inserita in un disegno strategico del capo mafioso per far apparire l'attentato come un fatto politico e come risposta al maxi processo a Cosa Nostra”. E nel gennaio 2013 la Procura della Repubblica di Firenze ne chiese il rinvio a giudizio come “mandante, determinatore e istigatore della strage”. Decisioni che apparvero sorprendenti perché Totò Riina, 84 anni e seriamente malato, è stato condannato a otto ergastoli per i suoi numerosi crimini, tra i quali la strage di Capaci, che causò la morte di Giovanni Falcone, della moglie e della scorta, e della strage di via D’Amelio, dove morirono Paolo Borsellino e gli agenti addetti alla sua protezione. Gli otto ergastoli Riina li sta scontando in regime di 41 bis, giudicato dal Papa “una forma di condanna a morte perché il condannato sviluppa sofferenze fisiche e psicologiche come la depressione, la paranoia, l’ansietà e la tendenza al suicidio ”. E dalla Corte europea dei diritti dell’uomo “un metodo inumano e degradante perché i detenuti, privati di tutti i programmi di attività lavorativa volti al loro ravvedimento e al loro recupero, si trovano tagliati fuori dal mondo esterno”. Mi chiesi allora su questo giornale se aveva senso sprecare energie umane (pm, giudici, cancellieri, avvocati e giornalisti nei tre gradi di giudizio) e consistenti risorse economiche (alcuni milioni di euro) per celebrare un processo che, anche quando si fosse concluso, com’era probabile ma non certo, con la condanna di Riina, avrebbe aggiunto un altro ergastolo a quelli che deve scontare. A questo punto rinuncio al preambolo rituale con il quale si suole dar conto delle letture delle numerose proposte di riforma dell’attuale sistema giudiziario del nostro paese ed entro subito nel tema, cercando di essere estremamente chiaro, obiettivo e senza pregiudizi. L’attuale sistema giudiziario va radicalmente cambiato per dare esauriente risposta alla domanda di giustizia, che i cittadini vogliono “giusta e rapida”. E che, soprattutto, sia in grado di smaltire in tempi brevi l’arretrato penale di 3,5 milioni di processi, “ destinati a esaurirsi per prescrizione nel 95% dei casi“, secondo il procuratore aggiunto di Torino Bruno Tinti che lo ha denunciato nel suo libro “Toghe rotte”. Un arretrato che i magistrati attribuiscono a carenze di organico, di personale ausiliario, di fotocopiatrici e di materiale di cancelleria e mai alla estrema lungaggine dei processi e alla oggettiva inutilità di alcuni. Rebus sic stantibus c’è da sperare che questa sentenza della Corte d’Assise di Firenze non abbia seguiti in Appelli e in Cassazione.