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Totò, una livella fra cielo e terra

Opinionista: 

Esattamente cinquant’anni fa, l'ultimo Re di Napoli lasciava il mondo dei vivi, quello delle “pagliacciate” per intenderci, per avviarsi tranquillo verso un cielo riservato agli umili, ai semplici eppure grandi, senza distinzione alcuna fra uomini e caporali, fra peccatori e santi, in una dimensione che avrebbe fatto lievitare infine quel tormento esistenziale del suo personale fardello popolano ed aristocratico. Ero un diciottenne, sperso e sconsolato, una goccia di lacrima in quel mare di gente, al Carmine, anch’io a sperare che fosse la scena di un film, e che il principe avesse inventato l'ultimo colpo di genio, per materializzarsi sulla soglia della chiesa, col guizzo e il lazzo del guitto, la bombetta in mano, nel saluto deferente e grato dell'artista al suo popolo, ma non fu così: Totò aveva intrapreso la sua personale “ascensione” verso la beatitudine. È difficile commentare l'anniversario di un uomo che già in vita aveva travalicato la propria materialità terrena, sublimandola in una simbiosi perfetta fra intuito e storia, fra naturale e sovrannaturale, realismo napoletano e surrealismo metafisico: ormai apparteneva al lessico e alle emozioni quotidiane di una umanità senza confini molto prima di lasciarci. Ecco perché sfugge il ricordo, non ha motivazione la commemorazione, e fa sorridere il contesto celebrativo alquanto autoreferenziale che si avverte in questi giorni da parte dei soliti noti, le parole pentite di coloro, intelletti sapienti, che un tempo avevano stroncato la sua arte cristallina. Totò è tra noi, con l’immancabile sigaretta accesa, s’aggira fra gli angoli assolati dei vicoli, in cerca di una penombra per la sua cecità fisica ma non spirituale, canzonatorio e infastidito dal frastuono scostumato di quegli strani “cosi” che la gente agita con alienante frenesia, sbraitandoci dentro! Sorride perché ha avuto ragione. Infatti la morte è stata sconfitta da quella immortalità che non gli era stata riconosciuta in vita. A rischio di sembrare empio, è facile affermare che, come per i santi, egli è riuscito a coniugare alla pari la sua caducità terrena con la eccezionalità della sua arte miracolante, i suoi peccati caratteriali con l'umiltà trascendente che spargeva benefica su noi tutti, è riuscito a “livellare” con ironia ed eleganza la polvere del corpo con l'etereo cristallino dell'infinito. Parlare di Totò, ricordarlo nel nostro cuore, condividere le espressione assurde del suo “non sense” didascalico, come una bibliografia a cui attingere in ogni momento della nostra vita, un canovaccio ineludibile per ogni occasione, in fondo è scrivere di noi tutti, di una “gens partenopea” che continua, nonostante caporali, profittatori e guappi di cartone, ad influire su una cultura multietnica, sconfiggendo pregiudizi e luoghi comuni. Più di ogni altro, Totò ha superato i confini espressivi e dialettali delle sue origini, rimanendo però ancorato ad una sorta di timidezza interiore, figlia di un'infanzia complicata, che gli ha cucito addosso, come la sua maschera e i suoi poveri abiti dignitosi, quella titubanza a travalicare le Alpi, a misurarsi di persona con i suoi miti, addirittura ad evitare un semplice saluto, come nell'incrocio fortuito con Chaplin a Montecarlo. Nonostante ne avesse lo spessore artistico ed umano, era nota infatti la sua “scornosità”, quell'imbarazzo psicologico a trattare con personaggi che la sua grandezza avrebbe potuto parimenti offuscare. In lui conviveva l'atavica tendenza del sussiego monarchico e la contestazione ribalda e feroce della ribellione anarchica, tipica del popolo napoletano: una macchia caratteriale e un costante risorgere catartico allo stesso tempo. Ecco perché ne scriviamo oggi, per distaccarci dalle celebrazioni oleografiche, per sorridere, come farebbe lui, di iniziative editoriali, di itinerari della memoria, gratificanti il solo ego di chi è convinto di saper spiegare ai giovani, agli ignoranti del mito, la vita dell'ultimo dei nostri re. Totò non ne ha bisogno, perché a Napoli ed oltre, migliaia di genitori hanno trasmesso un Dna genetico “a prescindere” fatto di gestualità e linguaggio dell'assurdo, plasmato nel nostro inconscio da un legame fideico. Quando penso a Totò rivedo il volto di mia madre illuminarsi in un sorriso, ritrovo la complicità che ci portava a cinema per condividere un'unica emozione e sperare che il futuro potesse e dovesse essere migliore del presente. Grazie, don Antò, perché, ancora oggi, continui ad indicarmi come va il mondo con le sue pagliacciate, anche se non ho mai fatto 3 anni di militare a Cuneo.