Felicetto Ferrara (nella foto), irpino di nascita e napoletano d’adozione, è natio di Montefredane, paesino collinare famoso per la “vitis apicia”, il vitigno a bacca bianca portato in Italia dagli antichi Greci, con cui si produce il “Fiano”. Gli diedero il nome Felicetto per distinguerlo dal nonno che si chiamava Felice. Dopo il diploma conseguito al liceo classico “Pietro Colletta” di Avellino, si è laureato all’ateneo partenopeo Federico II in medicina e chirurgia. È direttore della divisione di Ematologia e del dipartimento di Oncopneumoematologia del Cardarelli. Si definisce un “cardarelliano” puro perché ama il suo ospedale, a cui ha dato molto e dal quale ha avuto molto, così come ama immensamente Napoli. È sposato con Annamaria, professoressa di filosofia, e ha due figlie: la prima studia giurisprudenza, la seconda ingegneria. Come loro, tifa per la squadra del Napoli.

Professore perché ha scelto di specializzarsi in ematologia?

«Quando ero all’Università, all’ultimo anno del corso, ci mandavano negli ospedali per un tirocinio ospedaliero prelaurea. Fui assegnato per puro caso alla divisione di ematologia del Cardarelli, la prima divisione ospedaliera di ematologia in Italia, fondata da Nevio Quattrin, ematologo di fama internazionale. Mi appassionai a curare malattie difficili, allora incurabili o quasi, come le leucemie acute mieloidi e linfoidi. Combatterle e debellarle per me diventò una sfida. Dopo la laurea sono rimasto in ematologia al Cardarelli e Quattrin mi mandò a Genova dove c’era una grande scuola diretta dal professor Alberto Marmont, primario emerito di ematologia del San Martino. È morto tre anni fa all’età di 95 anni. Nel 1976 fu il primo in Italia ad eseguire un trapianto di midollo osseo, proprio nel reparto che aveva creato. Poi sono tornato al Cardarelli e, tranne brevi soggiorni negli Stati Uniti e in Inghilterra per aggiornamenti professionali, ho percorso in questo nosocomio tutta la mia carriera, da assistente, aiuto ed infine direttore della divisione di ematologia e coordinatore del dipartimento di onco-pneumo-ematologia».

Che cosa è questo dipartimento?

«Ad esso afferiscono otto unità operative mediche che, in stretta cooperazione, assicurano al malato un percorso di assistenza completa. Ha come mission la diagnosi e la terapia delle malattie tumorali, delle emopatie non neoplastiche e delle malattie respiratorie». Quando ha assunto la responsabilità di ematologia come l’ha trovata? «Ho avuto un grande vantaggio nella mia vita professionale: ho lavorato in un reparto che aveva già una grande tradizione. Naturalmente, dal 2000 in poi, quando sono diventato primario, ho fatto del mio meglio per migliorarlo. Abbiamo fatto notevoli progressi per quanto riguarda l’accoglienza e la sistemazione dei pazienti, sia in degenza che in day hospital ed abbiamo puntato molto sulle sperimentazioni cliniche».

Lei quindi è anche un ricercatore…

«Mi occupo di ricerca clinica e facciamo studi su numerosi nuovi farmaci, in collaborazione con aziende farmaceutiche e importanti ospedali italiani e stranieri. Sono relatore in tutti i più importanti congressi che si svolgono in Italia e ho avuto l’onore di moderare la sessione dedicata alle leucemie mieloidi acute al congresso dell’American Society of Hematology. Vengo anche consultato dall’Ema, European Medicine Agency per quanto concerne la registrazione in Europa di nuovi farmaci ».

Che cosa è l’Ema?

«È l’agenzia comunitaria dell’Unione europea per la valutazione dei farmaci e decide quali di essi devono essere registrati. Con la sua creazione ci si è prefissi il duplice scopo di ridurre il costo (circa 350 milioni di dollari l’anno) che le aziende farmaceutiche dovevano sostenere per ottenere le approvazioni dei farmaci separatamente dall’autorità di ciascuno Stato membro, e nello stesso tempo di contenere le tendenze protezionistiche dei singoli Stati che potevano ostacolare le approvazioni di farmaci potenziali concorrenti di quelli già presenti sul mercato interno. Attualmente l’Unione europea detiene circa un terzo della vendita di nuovi farmaci sul mercato mondiale».

In concreto che cosa fa?

«Sperimento con la mia squadra quali sono i farmaci più efficaci soprattutto per la cura delle leucemie acute mieloidi e linfoidi. La nostra attività è spesso premarketing nel senso che, in base ai risultati di efficacia e tollerabilità, i farmaci sperimentati vengono commercializzati oppure no».

In che modo e dove avviene la sperimentazione?

«Nel nostro dipartimento al Cardarelli. È una procedura abbastanza complessa. Curiamo il paziente con il farmaco in sperimentazione e trasmettiamo tutti i dati sulla sua efficacia ad un comitato di agenzie indipendenti, che spesso è fuori Italia. Finita la sperimentazione i dati vengoni pubblicati su una rivista scientifica di livello internazionale. L’industria farmaceutica produttice del farmaco, quindi, presenta il dossier all’Ema per la registrazione in Europa, oppure alla Fda, Food and Drug Administration, per la registrazione negli Stati Uniti».

La sperimentazione più importante?

«Ce ne sono state diverse. Quella del Glivec, ad esempio, che ha cambiato completamente la storia naturale della leucemia mieloide cronica. Sulla leucemia mieloide acuta, su invito di “The Lancet”, una tra le riviste di medicina più importanti del mondo, insieme ad un collega americano di Detroit, abbiamo pubblicato una review. Su una rivista ancora più prestigiosa, “The New England Journal of Medicine”, edito a Boston, abbiamo pubblicato i risultati di uno studio clinico sulla Lap, la leucemia acuta promielocitica di cui siamo considerati tra i maggiori esperti ».

Tra l’attività di ricerca e quella “quotidiana” a quale tiene di più?

«Sono un medico prima di essere un ricercatore. Mi piace avere il contatto con l’ammalato. Voglio vederlo tutte le mattine, parlare e scherzare con lui e farlo sorridere. Spesso vengo coinvolto nelle sue vicende personali. La nostra è una branca particolare dove gli ammalati vengono seguiti per mesi, a volte per anni. Il mio slogan è: in ematologia si lavora per un sorriso».

Come vede la sanità pubblica?

«Credo in essa fermamente. In Italia il concetto di privato, almeno in questo settore, è per certi aspetti fuorviante. Il privato vero è quello degli Stati Uniti dove si paga di tasca propria o attraverso l’assicurazione. Da noi abbiamo cliniche e laboratori convenzionati che aiutano a non appesantire troppo gli ospedali ma, ribadisco, credo fortemente nel pubblico».

Gli ospedali riescono a soddisfare la domanda soprattutto in riferimento ai tempi di attesa?

«Noi ci riusciamo. E non solo per quanto riguarda i tempi di attesa, ma anche per la somministrazione di farmaci particolarmente costosi. Ma non è così dappertutto. Il welfare state è stata la più grande conquista del Novecento. È un concetto etico che prescinde dal colore politico e va difeso a tutti i costi. Appartiene a tutti senza differenziazione di ceto o di razza. Naturalmente l’efficienza e l’efficacia degli ospedali dipendono strettamente e inevitabilmente dalle risorse economiche disponibili. Uno dei grandi problemi della medicina del domani è potere offrire a tutti le tecnologie e le terapie più costose».

Ma perché i costi delle terapie, soprattutto nella sua branca, sono così alti?

«Per l’egemonia assoluta delle aziende farmaceutiche che dominano il mercato. La ricerca indipendente, quella sponsorizzata dall’“accademia” è spesso perdente. In alcuni paesi, tra i quali il nostro, lo Stato investe poco nella ricerca, mentre i privati operano in maniera diametralmente opposta perché hanno ingenti capitali a disposizione».

Cosa occorrerebbe fare per migliorare questo stato di cose?

«Qui entra in gioco la politica. È necessaria un’analisi attenta dei costi e una conseguente razionalizzazione delle risorse e della spesa. Non è accettabile una regionalizzazione che spesso comporta, almeno nell’ambito della sanità, una ripartizione differenziata delle risorse con regioni che hanno di più e altre di meno. Il malato è uguale in tutte le parti del territorio nazionale e va curato alla stessa maniera e con gli stessi farmaci. È indispensabile, però, che il cittadino capisca che se ha il diritto di ricevere il farmaco che costa 100mila euro, ha anche il dovere di accettare la chiusura della ginecologia sotto casa, se non necessaria. Il parto può avvenire a 15 km da casa senza conseguenze».

Nell’approccio all’acquisto dei farmaci particolarmente costosi la struttura sanitaria pubblica come si comporta?

«Vi è una contrattazione tra Aziende e Agenzie regolatorie (in Italia l’Aifa). Per i farmaci ad altissimo costo a volte si fa ricorso al “pay per result”. In altre parole, il farmaco viene pagato solo se risulta efficace».

Come sono gli ammalati che cura?

«Noi tentiamo sempre di stabilire con i pazienti un profondo rapporto umano. Direi che vi sono due categorie di ammalati: quelli ultra informati che acquisiscono le notizie sulla loro malattia e sulla relativa terapia soprattutto sul web, e quelli che si affidano completamente al medico perché vogliono ignorare la propria condizione. L’interazione medico-paziente, per malattie gravi quali quelle che curiamo, è comunque complessa ed in ogni caso il colloquio con il paziente è molto importante. Bisogna spegnere il cellulare, guardarlo in faccia, saperlo ascoltare con pazienza e rispondere con chiarezza e semplicità alle sue domande. Lo merita perché si parla della sua salute e della sua vita. Deve nascere un feeling tra paziente e medico curante altrimenti il rapporto fiduciario, che in medicina è tutto, è fallito per definizione. Quando questo rapporto sorge, permane nel tempo, anche a guarigione avvenuta, e non di rado si diventa amici».

Crede molto nella deospedalizzazione…

«È parte importante del futuro della sanità pubblica. Grazie anche al contributo dell’Associazione italiana contro le leucemie, riusciamo fare a casa dell’ammalato alcune cose che di solito vengono fatte negli ospedali. L’assistenza domiciliare non solo riduce l’afflusso sia in reparto che in day hospital, ma è un bene per il paziente e per i suoi familiari sia sotto l’aspetto psicologico che economico. Tendiamo a “convertire” i ricoveri in day hospital e questi in assistenza domiciliare. Siamo abbastanza avanti, ma vogliamo fare molto di più».

Ha prestato particolare cura al comfort dei malati ricoverati…

«Abbiamo il wifi gratuito, la televisione e il frigorifero in ogni stanza, la zona relax dove si possono anche vedere le partite di calcio. Vogliamo che l’ospedale sia umano e che i pazienti vivano il meglio possibile la lora malattia. È fondamentale che i medici e gli infermieri trasferiscano affetto e che il paziente si senta ben voluto, amato».

Quanti sono i suoi collaboratori?

«15 medici e 40 infermieri».

Quali sono le sperimentazioni in corso?

«Ce ne sono diverse. Su di esse c’è, naturalmente, la massima riservatezza. Possono cambiare la storia naturale di alcune patologie».

Ha molta attenzione per il sociale…

«Mi sono impegnato e mi impegno nella ricerca di persone e aziende che ci possano aiutare. Abbiamo un’associazione che con i suoi ragazzi si occupa dell’accoglienza dei pazienti e, ovviamente, l’Ail. Nel nostro day hospital afferiscono circa 150 malati al giorno che vengono seguiti in ogni fase del loro percorso diagnostico- terapeutico. Mi occupo, poi, del reperimento di fondi. Tutto l’arredamento, inclusi i televisori e i frigo e la rete wifi, sono donazioni di privati. Per la ricerca, in particolare, un’iniziativa molto importante è “Napoli Live Art”. È un evento che organizziamo al teatro Mediterraneo nella Mostra d’Oltremare e siamo alla seconda edizione, con la partecipazione di rappresentanti della musica, del teatro, della letteratura, delle arti figurative, ma anche della moda e della cucina napoletana. Siamo ovviamente avvantaggiati dallo straordinario patrimonio culturale della nostra fantastica città. Ci piace pensare che la cultura di Napoli, in tutte le sue declinazioni, si stringe intorno al suo grande ospedale, il Cardarelli, ed in particolare alla nostra Divisione di ematologia».