Giovandomenico Lepore (nella foto), vomerese doc, per cinquant’anni ha servito lo Stato come magistrato. Ha percorso tutta la carriera fino a ricoprire l’importante e difficile incarico di Capo della Procura di Napoli. Ha coordinato indagini tra le più delicate della seconda Repubblica: Calciopoli, l’inchiesta sulla P4, sul bunga bunga e le escort a palazzo Grazioli, passando per l’emergenza rifiuti e le bonifiche fantasma in Campania, gli appalti al Comune di Napoli e le megatruffe sulle invalidità civili. Ha assicurato alla giustizia Antonio Iovine, Michele Zagaria e i fratelli Pasquale e Salvatore Russo, quattro tra i più pericolosi boss della camorra, latitanti per decenni. Eppure fare il magistrato non era la sua finalità. «È proprio così - spiega - perché non volevo fare un’attività dove si leggesse o si scrivesse molto. Dopo la maturità classica al liceo Sannazaro volevo iscrivermi all’Istituto Universitario Navale, oggi Università Parthenope, per fare il commissario di bordo. Mi accompagnò mio padre che proprio mentre mi stavo iscrivendo mi disse: “ma pensaci bene, non ti conviene iscriverti a giurisprudenza che ti apre tante porte?”. Mi lasciai convincere anche perché ero una persona molto incerta quando dovevo prendere una decisione. Dopo la laurea feci pratica notarile per oltre due anni presso lo studio del notaio Maddalena a Monteoliveto. Senonché, poiché ero il primo di quattro figli, mi resi conto che non potevo restare ancora a carico di mio padre che era un professore di liceo. Cominciai, quindi, a fare concorsi pubblici e contemporaneamente frequentai il corso di magistratura tenuto dal presidente Guido Capozzi. Su consiglio di mio zio, partecipai al concorso per ufficiale dell’Aeronautica con il duplice obiettivo di assolvere agli obblighi di leva e di iniziare a guadagnare. Lo vinsi e, dopo tre mesi a Firenze alla scuola di guerra, come primo in graduatoria scelsi la sede di Pomigliano d’Arco. Ricordo che all’epoca la cittadina era in subbuglio perché i residenti accusavano l’allora onorevole Giovanni Leone di non aver fatto nulla per loro, neanche l’impianto fognario. Mancava l’acqua e ci lavavamo con la Ferrarelle. Da allora bevo solo acqua naturale ».

E il concorso in magistratura?

«Lo feci e lo superai. Ricordo che mi presentai alla commissione esaminatrice in divisa di tenente. Fui assegnato alla Pretura di Vallo della Lucania. Poiché c’era un posto vacante a Napoli e non avrei dovuto concorrere con nessuno per averlo, chiesi ed ottenni di occuparlo. Nel frattempo mi ero sposato e dopo tre anni non avevamo ancora avuto figli. Gli amici continuavano a chiedere a me e a mia moglie Gloria il perché. La cosa mi dava notevolmente fastidio. Per questo motivo entrambi di comune accordo decidemmo di andare via da Napoli e fui assegnato come Pretore a Sestri Ponente. L’aria della Liguria ci fece bene perché dopo poco tempo mia moglie rimase incinta e lì è nato nostro figlio Fabrizio. Napoli però ci mancava e, dopo un periodo alla Pretura di Minturno, ritornai definitivamante a “casa”, alla Procura della Repubblica a Castel Capuano presieduta da Alfonso Vigorita ».

Come ricorda la sua esperienza di Pretore?

«È il migliore giudice che sia mai esistito. Si conosceva la gente e si amministrava la vera giustizia come facevano gli antichi romani».

Decise lei di fare il requirente?

«No, fu un fatto occasionale perché c’erano più posti liberi in Procura. Feci poi il giudice istruttore nel famoso palazzetto, il prefabbricato adiacente a Castel Capuano, con Francesco Cedrangolo».

È stato anche giudicante?

«Sì, oltre all’ufficio istruzione sono stato giudice alla quarta e nona sezione penale del Tribunale presieduta da Antonio Rocco, un ottimo magistrato, molto severo con il quale però ho avuto sempre un buon rapporto. Ricordo che i detenuti avevano scritto sulle pareti delle celle di sicurezza, che stavano nel piano interrato: “Dio perdona, Rocco no”. Una delle prime assoluzioni fu data quando ero io nel Collegio. Avemmo la protesta della parte civile. Rocco mi disse: “hai visto che m’hai cumbinato? Mai avevo avuto una protesta” e io gli risposi “Presidente , c’è sempre una prima volta”. Sono stato poi in Corte di Appello facendo anche la sezione minorenni. È stato un momento difficile e con grandi responsabilità soprattutto in materia di diritto civile quando si decideva il destino di un ragazzo per tutta la vita».

Poi è tornato a svolgere funzioni requirenti?

«Sì alla Procura Generale. Ci sono rimasto per 17 anni facendo prima il sostituto procuratore generale e poi l’avvocato Generale ».

Quando è diventato capo della Procura di Napoli?

«Con l’andata via di Agostino Cordova. Sinceramente mi trovavo bene dove stavo, ma poiché c’era stato un periodo di contrasti all’interno della Procura, fui compulsato da diverse correnti della magistratura e da persone “molto in alto” che mi chiedevano di assumere quella carica ».

Perché proprio lei?

«Ero al di sopra delle parti e non mi ero mai interessato attivamente di politica associativa, anzi l’ho sempre combattuta. Fui messo davanti al bivio: assumere l’incarico o andare in pensione. Accettai con una certa “fifarella”, ma trovai tanti amici che avevo conosciuto nel tempo che collaborarono con me e mi dettero una mano. Erano dei grossi calibri che oggi, molti di loro, sono titolari delle procure del distretto di Napoli e dei distretti vicini».

Superato l’impatto iniziale come si trovò in quel ruolo “caldo” e scomodo?

«Molto bene, tanto è vero che in sette anni, nel corso dei quali ci sono stati anche momenti di tensioni e contrasti interni, ho ottenuto ottimi risultati. Organizzai la polizia giudiziaria e avevo due ottimi collaboratori: il capo della Mobile Vittorio Pisani per la Polizia e il maggiore, oggi colonnello, Fabio Cagnazzo per i Carabinieri. Erano investigatori molto in gamba, non sempre osservanti delle regole, un po’ alla Serpico, ma che portavano sempre brillanti risultati. Riorganizzammo con il generale Gallitelli la struttura interna dei Carabinieri. Sono stato uno degli ultimi beneficiari dell’età pensionabile a 75 anni e quando sono andato via l’ho fatto con grande rimpianto».

Se dovesse consigliare un giovane uditore giudiziario lo orienterebbe per la requirente oppure per la giudicante?

«Gli direi di non partire subito per fare il pm affascinato dal fatto che ha la polizia giudiziaria a disposizione, l’auto ed un certo potere. È importante, invece, avere un’esperienza completa onde è necessario svolgere anche le funzioni giudicanti. In questo ruolo, infatti, si acquista maggior equilibrio e serenità di giudizio».

Ma come può un magistrato passare da un “ruolo” all’altro?

«Noi avevamo nella figura del Pretore la prima scuola per imparare a fare sia il requirente che il giudicante. Ricordo che la prima grana la ebbi in materia di elezioni comunali a Minturno. Per legge il Pretore, in assenza della commissione elettorale, controllava le liste e io nel farlo con la pignoleria che avevo all’inizio esclusi dalla competizione elettorale una lista dei coltivatori diretti per sole tre firme irregolari. Successe il finimondo. Per grazia di Dio si risolse tutto».

Oggi invece?

«Sotto questo aspetto l’abolizione della figura del Pretore è stata molto penalizzante. Il tribunale ha il collegio e anche il giudice monocratico, ma non è la stessa cosa. Poi esistono dei paletti nel senso che se un magistrato fa prima il pm non può poi fare il giudice nello stesso distretto, per cui normalmente la scelta di fare il requirente o il giudicante si fa fin dall’inizio ».

Esiste veramente l’autonomia dei magistrati?

«Quando si parla dell’autonomia dei magistrati si fa un’affermazione che è vera fino a un certo punto. E questo è un problema molto importante. Già se consideriamo che dipendiamo dal ministero della Giustizia per l’organizzazione e per gli stipendi, l’autonomia va a farsi benedire. Abbiamo poi un organo di autogoverno, il Consiglio Superiore della Magistratura, che è eletto da tutti i magistrati. Ma alla verifica dei fatti il Consiglio il più delle volte fa rimpiangere il tempo quando a decidere era solo il ministro. Ora, infatti, le persone cui bisogna rivolgersi sono trenta e spesso le scelte che vengono fatte sono dettate dalle correnti che si sono formate all’interno della magistratura. Hanno le etichette di “destra”, di “centro” o di “sinistra”, ma fanno sostanzialmente quella “politica” che io ho contrastato fin da quando ero in servizio e ancor più oggi».

Quindi non ha in buona considerazione il Csm?

«No, purtroppo, perché quando ero in servizio, per qualsiasi richiesta legittima molto spesso bisognava farsi conoscere rivolgendosi a qualcuno di loro. Questo penalizza molto il concetto di meritocrazia e premia l’appartenenza a questa piuttosto che a quella “corrente” con il risultato che gli uffici importanti possono essere frutto di una spartizione simile a quella che si fa in politica».

Ha avuto personalmente qualche esperienza?

«Una molto dolorosa e significativa. Quando nel 2006 ci fu la riforma delle funzioni del pubblico ministero con il cambiamento del processo da inquisitorio ad accusatorio, il pm è diventato una parte del processo al pari dell’avvocato. Il rappresentante di tutto l’Ufficio del pubblico ministero è solo il Capo che risponde nei confronti di terzi. Conseguentemente se il Pm fa una “sciocchezza” ne risponde solo disciplinarmente mentre nei confronti del terzo la responsabilità è del capo della Procura. Nonostante si sia comunque in presenza di una gerarchia molto approssimativa, il Capo ha la possibilità di togliere l’incarico a un sostituto se ne motiva le ragioni. Poiché non fui d’accordo su alcune decisioni prese da qualche Pm tolsi loro il processo. Fui attaccato per questo e portato davanti al Csm perché si avviasse nei miei confronti un procedimento disciplinare al fine di riaffermare il principio della piena autonomia dei sostituti. Dovette intervenire il Capo dello Stato nella sua qualità di presidente del Csm per ristabilire la legalità. Ci rimasi molto male anche se trovai molti colleghi dalla mia parte».

Assistiamo sempre più frequentemente a processi mediatici. Qual è il suo pensiero al riguardo?

«Ho sempre contrastato Bruno Vespa che è stato l’iniziatore di questo fenomeno con la trasmissione “Porta a porta”. Con il suo “collegio giudicante” fa tutti e tre i gradi di giudizio, ascolta periti, fa ricostruzioni dei luoghi del crimine con plastici. Il tutto quando le indagini sono ancora nella fase iniziale. Più si protesta e più dilaga il fenomeno in nome del diritto di cronaca».

E sul problema della lungaggine dei processi?

«È un cancro che va estirpato. Come ho scritto anche nel mio libro “Chiamatela pure giustizia (se vi pare)”, non è che è cambiato il sistema giudiziario, è stato sempre così. Sin dai primi del Novecento all’inaugurazione dell’anno giudiziario le doglianze dei Procuratori Generali prima ed oggi dei Presidenti delle Corti di Appello sono state sempre le stesse: la lungaggine dei processi, la mole di arretrati e la mancanza di personale».

Il perché?

«Se la giustizia non funziona conviene un po’ a tutti. Conviene al politico, come al delinquente e anche alla persona onesta che ne approfitta quando per puro caso si trova implicato in qualche piccola vertenza e si giova del trascorrere del tempo per non adempiere o farlo il più tardi possibile ».

Tanta esperienza e ancora tanta energia. Attualmente come le impiega?

«Con due giovani avvocati abbiamo costituito un organismo di vigilanza in materia di responsabilità penale amministrativa delle società per fatti commessi dai dipendenti nell’interesse della società dalla quale dipendono».