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La torcia n. 1
21 Agosto 2024 - 09:30
PRAGA. Nel cimitero di Olšany, l’operaio sta spostando pietre con una carriola. Gli chiediamo della tomba di Jan Palach. Lui sospende il lavoro e ci accompagna fino alla lapide. Forse è questa l’immagine della vittoria più importante, quella della memoria storica, dello studente boemo di 20 anni che il 16 gennaio 1969 si dette fuoco nella piazza centrale di Praga per protestare contro l’invasione sovietica.
Sopra la lapide, con la riproduzione stilizzata del suo corpo bruciato a grandezza naturale, ci sono due mazzetti di fiori freschi e alcuni lumini. Una delegazione della Fondazione il Giglio depone un fascio di crisantemi bianchi e gialli.
Di Palach, nella tomba ci sono solo le ceneri.
Nel 1973 il governo comunista della Cecoslovacchia obbligò la famiglia a riesumarne il corpo e a farlo cremare per fermare i pellegrinaggi continui. Le ceneri furono trasferite a circa 50 chilometri da Praga. La macchina della disinformazione si mise in moto, doveva impedire che Jan Palach diventasse un simbolo della resistenza antisovietica e un esempio per le nuove generazioni.
"I servizi segreti russi – scrisse Paolo Mieli – fecero l’impossibile per comprometterne l’immagine, venne dipinto alla stregua di un demente, esaltato, convinto da ‘agenti occidentali’ a simulare il suicidio versandosi addosso un liquido che gli avevano garantito essere non infiammabile".
Lo studente fu presentato dai media cecoslovacchi come uno squilibrato. “Aveva problemi mentali”, annunciarono i notiziari. Ma le lettere lasciate in piazza San Venceslao, a pochi metri dalla statua del Duca boemo,
dove oggi un memoriale a forma di croce lo ricorda, erano firmate “torcia numero 1” e chiarivano il significato del gesto.
“Il mio non è un suicidio”, ripetette in ospedale lo studente della facoltà di lettere dell’Università Carlo IV, durante un’agonia di tre giorni.
Quello di Palach - scrisse il teologo Josef Zvěřina - “non fu un suicidio, ma un sacrificio di sé. Palach morì perché vivessero gli altri”. Il 25 febbraio 1969 si dette fuoco un altro studente, Jan Zajíc, 18 anni, e firmò la lettera d'addio "torcia numero 2”. Il Governo gli negò i funerali a Praga, sul nuovo sacrificio scese il silenzio, poi seguirono altre vittime sempre più anonime. 55 anni dopo, però, la battaglia del ricordo sembra vinta dai perdenti degli anni ’70.
«Jan Palach? Certo che lo conosco, era un coraggioso», dice l’anziano tassista che ci porta al cimitero monumentale praghese, e ci spiega dove si trova la tomba.
David, un trentenne, che lavora per gli alberghi, dice che Palach «è una leggenda». «C’è una giornata per ricordarlo (il 16 gennaio, ndr), c’è una piazza dedicata a lui, e c’è un film che ne parla». Pensi che sia un eroe nazionale? «Sì».
A Náměstí Republiky, in pieno centro di Praga, un “Museo del Comunismo”, parla della “torcia numero 1” e dell’invasione sovietica del 1969, visitatori di tutto il mondo guardano spezzoni di filmati d’epoca, i volti straniti di giovani e anziani di fronte ai carri armati, gli scontri con la polizia.
Omar, 25 anni, è nato in Dagestan, repubblica russa, ed è arrivato bambino a Praga. Sta per essere assunto come controllore del traffico aereo, ma ha studiato economia e pensa ad un prossimo lavoro nella finanza. «So chi è Palach, era un ragazzo molto coraggioso. Ha resistito all’invasione sovietica, poi altri hanno seguito il suo esempio». Ma a scuola, si studia l’invasione del 1968? «Sì, ma è un periodo breve nei programmi. Ai miei genitori che rimpiangono la sicurezza sociale dell’URSS, io ripeto: c’erano quelli che soffrivano». Come Jan Palach. Anche per gli altri. “Caro Jan, berremo tutte le tue lacrime”, recitava una poesia.
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