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Giustizia e santità

Il procuratore Airoma: «Davanti alla camicia insanguinata di Livatino ho visto piangere anche magistrati atei»

Secondo incontro del percorso di formazione del Centro Studi Fondazione Padre Baldassare Califano. Una raccolta di firme per elevare il "giudice ragazzino" al rango di "Patrono dei Magistrati"

Il procuratore Airoma: «Davanti alla camicia insanguinata di Livatino ho visto piangere anche magistrati atei»

Il giudice Rosario Livatino

CASTELLAMMARE DI STABIA. Amava il cinema, ma non gli era piaciuto il film "Guerre Stellari". Forse perché coltivava la giustizia come strumento di pace e nel firmamento vedeva l'opera di Dio: non poteva sopportare il connubio dei due termini, guerra e stellare. Dettagli di un giovane martire della giustizia che per la sua fede è diventato beato e che è oggetto di una raccolta di firme perché possa essere nominato "Patrono dei Magistrati". S'è parlato di Rosario Livatino nel secondo incontro del percorso di formazione del Centro Studi Fondazione Padre Baldassarre Califano al Teatro Karol di Castellammare di Stabia. A testimoniare quanta forza ha espresso con la sua vita "il giudice ragazzino" è stato il Procuratore capo della Procura della Repubblica di Avellino, Domenico Airoma, che studia da anni la figura di Livatino. «Ho cominciato quando dirigevo la rivista "La Magistratura" e decisi di porre mano a un servizio sui magistrati uccisi per il proprio lavoro - ha raccontato Airoma - decisi di partire da Rosario Livatino, ma subito mi resi conto che il suo sacrificio era stato sottovalutato al punto che i grandi giornali dell'epoca non riportavano neppure il suo nome nei titoli». Il Corriere della Sera titolava, infatti: "Assassinato giudice di Canicattì". 

«Volli quindi recarmi di persona a Canicattì, per cercare più dettagli sulla vita di Livatino. E non fui accolto benissimo - prosegue Airoma - Come prima cosa, appresi che Rosario viveva in una casa a via Roma dove, al piano di sopra, c'era il capo della mafia locale. Una mafia che aveva un proprio nome: "Stidda" e faceva contare decine di morti al mese. Canicattì non è Catania o Palermo. È una provinicia che, nel crimine, si metteva in competizione con la Mafia di Catania e di Palermo, e voleva ostentare e dimostrare di essere superiore, fino ad ammazzare un giudice».

«Livatino studiava, ma non era un secchione. A casa coltivava il suo hobby: possedeva una collezione di film in videocassette. Era un ragazzo normale. Su ogni videocassetta aveva scritto un giudizio - lo descrive Airoma - Ma era molto schivo. Non rilasciava interviste e di lui si hanno poche immagini: a un matrimonio di un amico e a un premio a un carabiniere. Forse sono riuscito a trovare una registrazione della sua voce. Aveva sempre un'agenda in cui annotava tutto quello che gli succedeva durante la giornata. E aveva i suoi amori, le sue passioni. Aveva annotato in rosso quando prestò giuramento da magistrato. E scrisse anche che per lui la giustizia era preghiera... Aggiungerà: "il credente decide come agire con giustizia in un dialogo con Dio. Il non credente lo fa per il bene comune. Ma, entrambi, non devono perdere la dimensione spirituale di ciò che fanno, la dimensione verticale"».

Si racconta, ha detto Airoma, che davanti a un mafioso ucciso, un uomo delle forze dell'ordine che lo accompagnava esclamò: "Uno di meno". Livatino gli rispose: «Davanti alla morte, chi crede prega. Chi non crede, tace». In un giorno di Ferragosto, nel caldo più feroce e il mondo in pausa, il Beato Livatino si mise in macchina per recarsi a scarcerare un detenuto al quale scadevano i tempi della carcerazione. Gli fu osservato che proprio in quel giorno, forse, era una fatica che si poteva risparmiare. Lui rispose: "Non un giorno di più"».

«Fu assassinato nella stessa strada ad Agrigento, dove era stato ucciso, nel 1922, il magistrato Antonino Saetta e il suo figlio disabile... Chi percorre quella strada trova due targhe, di Livatino e di Saetta - ha raccontato Airoma - Posso dire che uno dei miracoli di Livatino è che la sua figura unisce magistrati e avvocati».

COME È MORTO

La descrizione della morte del giudice Livatino fa accapponare la pelle. «Si era fatto assegnare un fascicolo "rognoso": il sequestro di beni per un mafioso, di cui avrebbe dovuto occuparsi un altro magistrato. Ma lui chiese di prenderlo al suo posto perché, aveva detto, "il collega ha moglie e figli" - prosegue Airoma - Era consapevole di correre un rischio molto serio. E che fosse in pericolo di vita lo sapevano già tutti, ci sono gli atti processuali che lo attestano. Ma non aveva scorta. Non gliel'hanno mai data. Lui continuava a girare con la sua Ford Fiesta di colore amaranto. Il 21 settembre 1990, venne affiancato da uomini su una motocicletta che spararono il primo colpo di pistola. Lui fermò l'auto e scese cominciando a correre nella scarpata per tentare di sfuggire ai killer ma venne raggiunto e colpito al fianco. Cadde e, quando il killer lo raggiunse per dargli il colpo finale, lui fece una domanda: "Picciotti, che vi ho fatto?" Quasi a chiedere se avesse commesso una ingiustizia che giustificasse quella aggressione. Gli spararono un colpo di pistola in bocca. Eppure, in seguito, quando si esaminò il suo corpo, si scoprì che  quel volto era rimasto integro».

NON FINISCE QUA

«Su quella stessa strada, mentre la motocicletta si accostava a Livatino, passava un'auto di grossa cilindrata. A bordo c'era un ricco agente di commercio di Lecco, Piero Ivano Nava, che vide il motociclista sparare i primi colpi all'auto di Livatino. La sua auto aveva persino uno dei primi telefonini che, però, in quella zona non aveva linea. E, allora, Nava si fermò al telefono pubblico da cui chiamò la polizia e diede descrizioni dettagliate di ciò a cui aveva assistito. Pensate, un uomo che era di Lecco e non pensò di allontanarsi e girare lo sguardo altrove. Descrisse talmente bene tutto ciò che era accaduto davanti ai suoi occhi che il giudice che raccolse la sua testimonianza, in un primo momento pensò che fosse un mitomane. Quel giudice, pensate un po', era Giovanni Falcone. Che poi si ricredette a mano a mano che emergevano i fatti dalle indagini. E quindi gli chiese scusa».

Nava è stato il primo "testimone di giustizia" messo sotto protezione. Ha dovuto cambiare vita, abbandonare tutto e tutti insieme con la sua famiglia. Cambiare nome e cambiare continuamente paese. Ma, ha sempre affermato che avrebbe rifatto le stesse scelte. «Credo che ognuno di noi ha dentro di sé una Canicattì che ci chiama a scegliere - ha osservato il Procuratore Airoma - La decisione non riguarda solo il giudice Livatino, il quale diceva: «Per scegliere occorre la luce. Nessun uomo è luce a se stesso».

IL KILLER CONVERTITO E QUELLO CHE NON SI PERDONA

"PERCHÈ HO UCCISO UN SANTO"

«Uno dei due killer, Domenico Pace, che io ho conosciuto, ha fatto sul serio un percorso di conversione - ha raccontato Airoma - È ancora detenuto, ma viene spesso a raccontare la sua vita e quando parla della sua conversione dice: "Ogni notte mi veniva in sogno Livatino e mi diceva che dovevo cambiare vita"».

«A una mostra su Livatino a Milano, ho incontrato un altro uomo del commando che assassinò il giudice Livatino - prosegue  - si trovava lì in permesso e si mise a piangere. Raccontò di non perdonarsi di avere ucciso un Santo. Ma, vedete,  davanti alla camicia insanguinata di Livatino ho visto piangere anche magistrati atei»».

LE DOMANDE DEI GIOVANI

 

Numerose le domande che i giovani hanno rivolto ad Airoma: "Cosa l'ha spinta verso questa figura di santo?".

«Penso che si viene attratto da ciò di cui si ha bisogno. Mi trovavo in un momento in cui mi interrogavo sul "magistrato superuomo" e mi sono imbattuto in Livatino, che era umile, che è diventato santo pur nato in una provincia da un posto della periferia» ha risposto il Procuratore Capo di Avellino.

Un'altra ragazza ha chiesto: «Si riesce sempre a separare il bene dal male?».

«Innanzi tutto, va definito cosa sia il bene - è stata la risposta - Cosa significa rendere giustizia a chi gli è stato sottratto il bene. E noi per "bene" comprendiamo con facilità se pensiamo ai beni che ci hanno lasciato i genitori, i beni che possediamo con diritto e che se ci vengono sottratti hanno un valore. Ma se parliamo di libertà? Dove si compra la libertà? Come si riconquista? E allora ci rendiamo conto che la giustizia non è una cosa che riguarda solo i magistrati. Ma riguarda tutti. Perché se voi giovani assistete a un atto di bullismo contro un amico, o a un maltrattamento di una vostra amica, non potete girare la faccia da un'altra parte. La scelta tra il bene e il male è qualcosa che troviamo nel nostro cuore».

Un giovane ha domandato: «È possibile essere magistrato operando in solitudine? È possibile restare indipendente».

«Io consiglio la solitudine. Per chi ha ruoli di alta responsabilità è persino un obbligo - ha risposto Airoma - Ma un conto è operare in solitudine e altro è essere isolati. Dalle istituzioni, dall'ambiente che ci circonda. La solitudine è anche una necessità per restare persona rispettata. Suggerisco sempre di evitare di metter like su dichiarazioni di un politico. Di stare attenti a chi si frequenta. I santi sono modelli ai quali ci si ispira. Nel caso dei giudici non solo devono essere indipendenti, ma anche apparire indipendenti. Livatino ci indica la strada. Ci dice: si può fare».

Sulla spettacolarizzazione della giustizia, Airoma ha osservato: «Purtroppo all'opinione pubblica non interessa più la sentenza, ma lo spettacolo che si crea attraverso i media intorno ai fatti che seguono. E i giudici sono molto tentati. Livatino, quando vedeva le telecamere si nascondeva».

IL VESCOVO

Grande soddisfazione per la serata è stata espressa dall'Arcivescovo di Sorrento-Castellammare di Stabia, monsignor Francesco Alfano, che ha seguito con interesse, seduto accanto al presidente della "Fondazione Padre Baldassarre Califano", don Catello Malafronte. Il Vescovo ha concluso l'incontro rilevando come "il confronto" con un Santo avrebbe potuto creare disagio, «eppure non ci siamo sentiti a disagio, perché il vero gigante non ti umilia, ma si mette a confronto». Alfano ha poi ringraziato per "il dialogo" con i giovani «che non era scontato, ma si è sviluppato attraverso domande interessanti su questioni che h anno tracciato nuove piste di studio». E, per ultimo, l'Arcivescovo ha parlato di "bellezza" che si manifesta nell'amore «E qui siamo stati in contatto con un innamorato, il Procuratore Airoma. Nel confronto ci accorgiamo che spesso siamo disamorati: del futuro, di ciò che ci circonda, del nostro lavoro, del presente e dei giovani. E pure voi, giovani, spesso siete disamorati. Ma quando siamo innamorati facciamo silenzio, come abbiamo fatto silenzio davanti a una personalità come Rosario Livatino, che era innamorato della giustizia».

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