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l'opinione
14 Maggio 2025 - 10:15
«Beati i costruttori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio». Con queste parole del Vangelo secondo Matteo si potrebbe riassumere il senso profondo dei primi giorni di pontificato di Papa Leone XIV. Il suo sguardo, il suo tono, le sue parole – dalla loggia di San Pietro fino all’omelia della prima Messa – hanno indicato con chiarezza una via: la pace non come utopia, ma come necessità storica, politica, spirituale. In un’epoca stanca di cinismo e anestetizzata dal rumore della guerra, Leone XIV ha parlato con semplicità e fermezza. In pochi giorni, quella voce ha iniziato a produrre conseguenze concrete. Non solo la Russia – che ha proposto un confronto con Zelensky in Turchia – ha scelto di rientrare nel campo della trattativa, ma si è registrato anche un nuovo equilibrio tra le grandi potenze.
Gli Stati Uniti, fino a poco tempo fa determinati nel tenere la leadership solitaria delle dinamiche internazionali, hanno riposizionato la propria strategia sull’asse euroatlantico, riconoscendo all’Europa un ruolo di primo piano. È tornato il tempo della cooperazione, della convergenza. E l’Europa, a sua volta, ha raccolto il segnale. La voce del Papa è servita da catalizzatore di un sentimento comune: il tempo della guerra permanente deve finire. Il mondo ha bisogno di un’altra architettura morale, e questa architettura può ripartire da Roma. Non siamo ingenui. La pace non si firma in una settimana. Ma la storia insegna che ci sono parole che aprono processi. E il pontificato di Leone XIV si è aperto così: come una fenditura nella roccia, come uno spazio nuovo in cui il dialogo può di nuovo respirare. Non è una coincidenza. È una responsabilità. Ma la pace – come ben sapevano i padri del popolarismo cristiano, da Don Sturzo ad Alcide De Gasperi – non è solo cessazione di guerra. È lavoro, è scuola, è giustizia sociale, è pane condiviso.
Ed è qui che entra in gioco la responsabilità della politica. Come vicecoordinatore regionale di Forza Italia in Campania, sento il dovere di trasformare quella voce in agenda, quella visione in impegno. Perché la nostra terra, più di ogni altra, conosce cosa significhi vivere in una guerra senza armi: quella contro la povertà educativa, contro la disoccupazione giovanile, contro il disincanto. Nel 2024, secondo i dati Eurostat, oltre il 41% dei giovani campani tra i 15 e i 29 anni era senza lavoro. È un numero che non racconta solo una crisi economica, ma un collasso di fiducia. Perché dove non c’è un futuro, nasce la rabbia. Dove manca il lavoro, cresce la devianza. Dove non ci sono alternative, si cercano scorciatoie. Ecco perché la parola “pace” – pronunciata da Leone XIV più volte, con insistenza e dolcezza – non è solo un richiamo universale: è una richiesta diretta anche a noi amministratori, parlamentari, dirigenti, educatori.
Aiutare i giovani a costruire una speranza concreta è oggi la forma più urgente di costruzione della pace. Non possiamo più permetterci di trattare la questione giovanile come un dossier. Va vissuta come una priorità antropologica. Dobbiamo offrire opportunità, strumenti, orizzonti. Dobbiamo accendere schermi che non mostrino solo guerre, ma visioni. Solo così potremo dire, davvero, di aver accolto l’appello di questo Papa. E poi c’è un simbolo, che vale più di mille piani triennali. Un gesto semplice, umano, sportivo. Papa Leone XIV come me ama il tennis. È un linguaggio che conosce. A Saronno, la mia città, sorge il Santuario della Beata Vergine dei Miracoli, e qui vive una squadra di tennis comunale ma di devoti alla Madonna che da anni educa, aggrega, accompagna.
Ed è espressione viva di quella comunità. È da lì che oggi parte una sfida amichevole al Vaticano. Una partita tra la squadra di Saronno e quella del Papa. Perché so che in Vaticano ci sono preti-atleti, religiosi che usano lo sport per evangelizzare. Ho giocato anch’io in passato con alcuni religiosi. E so che una sfida come questa non è solo sport: è pedagogia, è segno, è costruzione di ponti. La pace, dopotutto, passa anche da una rete tesa su un campo, da due racchette, da un applauso leale. Se il Papa accettasse, sarebbe un messaggio al mondo: che la Chiesa parla ai giovani anche dai campi da gioco. Il tempo della pace è cominciato. Sta a noi decidere se restare spettatori o diventare costruttori. Perché come diceva Paolo VI, e Leone XIV oggi ci ricorda: «Lo sviluppo è il nuovo nome della pace».
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