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la riflessione

Gratteri in tv, è polemica tra legalità e politica

Il Procuratore ha motivato la scelta come impegno civile

La mani del clan sulle case popolari, Gratteri: «Adesso i cittadini sono più liberi»

Il procuratore capo di Napoli, Nicola Gratteri

Ha suscitato un notevole dibattito la decisione del Procuratore capo presso il Tribunale di Napoli di accettare una stabile collaborazione presso La 7 di Umberto Cairo, nei cui palinsesti apparirà con quattro appuntamenti – e chissà, se di successo potranno anche incrementarsi – per noi – la più importante d’Italia. E si diceva, e si dice, che del magistrato, virtù è la discrezione, il silenzio, il parlar per provvedimenti e non in televisione. Il Procuratore Gratteri ha motivato il suo, come impegno civile.

A differenza d’altri suoi colleghi che, così più o meno si è espresso, si godono legittimamente le vacanze al mare o altrove, egli avverte il dovere civico di prodigarsi in opera di formazione dell’opinione pubblica su questioni di generale interesse, nelle quali, o la coscienza civica si fortifica o le cose non potranno andar bene, perché, e questo è verissimo, con manette e poliziotti non si risolve certo il problema della delinquenza organizzata: che è problema di carattere culturale, io penso anzitutto, e poi evidentemente anche di contesto economico e sociale (ma si tratta di componenti strettamente intrecciate). Sinceramente, non trovo alcunché di sbalorditivo nella scelta del dottor Gratteri di porsi al servizio della collettività, non solo come solerte investigatore, autore di memorabili indagini e certamente depositario di preziosi saperi, ma anche come propalatore di questi ultimi, con finalità educativa generale per le collettività di riferimento.

E non provo meraviglia qual che sia, semplicemente perché è cosa ben nota che la funzione del pubblico ministero nell’ambito della giurisdizione è per sua natura squisitamente politica, come pure alla politica pertiene il farsi carico dell’elevazione civile e morale della comunità dei cittadini. L’ho scritto più volte, ed ovviamente non si tratta di scoperta mia, bensì di acquisizioni che la sociologia del potere ha raggiunto altrove da circa un secolo. Chi indirizza l’azione penale – sia esso un soggetto dotato di legittimazione popolare, che sarebbe meglio, o anche un funzionario dello stato, selezionato sulla base di competenze tecniche, come da noi – è colui il quale fa la concretamente la politica criminale dello Stato. Non è cosa da poco.

Attraverso la reazione penale, lo Stato investe costose e cospicue risorse per combattere determinate condotte e favorirne dell’altre. Compie un’opera costante di ricucitura dell’ordine giuridico del quale lo Stato stesso è espressione e lo fa nella maniera più decisa ed effettiva possibile: trasferendo in (assai poco ospitali, da noi in particolare) istituti penitenziari coloro che violano le regole socialmente acquisite e trasformate in norme giuridiche, o comunque affliggendo il reo in vario modo. Non è la forma più efficace per garantire la coesione sociale – quella è l’istruzione e l’educazione, da noi altamente neglette – ma è certamente la forma più immediata: quella che, appunto, senza mediazioni di sorta, interviene direttamente nelle carni, o sulla libertà se si vuole, dunque in modo abbastanza diretto ‘convincente’.

Scegliere cosa perseguire, o scegliere cosa perseguire con maggior profusione d’energie, è valutazione che ha intrinsecamente carattere eminentemente politico, perché si tratta di stabilire quali settori ed interessi della società proteggere più chealtri, nella ponderazione tra i pressoché infiniti ambiti d’intervento: infiniti o almeno tanti da non poter essere salvaguardati tutti, contemporaneamente. Diciamo che la concessione del merum et mixtum imperium et gladii potestate, vale a dire il potere dell’alta e bassa giurisdizione penale, hanno, da sempre, rappresentato gli attributi connotanti la sovranità, per la semplice ragione che la giurisdizione è la forma più definitiva attraverso la quale lo Stato si pronuncia nei rapporti sociali, dunque sovranamente.

Ora, non è questione tecnica la scelta del perseguire più il furto, il peculato o il crimine organizzato, o ancora i reati contro l’onore. Sono scelte e scelte che – involgendo una valutazione di preminenza tra gli interessi tutti presenti nella collettività – non possono che compiersi secondo criterio politico: ché è della politica la ponderazione tra gli interessi con le conseguenti scelte in favore dell’uno o dell’altro. Una scelta, si badi bene, che se politicamente condotta non ha alcunché di arbitrario, perché frutto dell’interpretazione storica, cioè a dire di una compiuta lettura della mappa delle istanze sociali ad un dato momento, uno scrutinio compiuto sulla scorta di valutazioni che hanno dell’economico, del sociale, dello spirituale, ma anche, possibilmente, di ogn’altra possibile componente culturale presente in un a società determinata in una certa fase del suo sviluppo.

Ora, che chi compie quotidianamente di queste scelte acquisisca un abito mentale che ha dimensione politica – politica nel senso ora detto – è del tutto normale, non solo, bensì pure auspicabile, perché altrimenti le sue decisioni sarebbero frutto di personali elucubrazioni e questo non sarebbe bene in una repubblica democratica. Ciò però su cui non mi trovo d’accordo con il Procuratore Gratteri – conta poco, lo so, ma serve almeno a scriver questo articolo – è che egli rifiuti il principio della separazione delle carriere. Le funzioni del pm e del giudice sono ontologicamente distinte, l’una di carattere squisitamente politico, l’altra, invece, funzione squisitamente giudicante e nei limiti dell’umano possibile, neutra. Ed in realtà, stando così le cose (ovviamente sempre a mio giudizio) la separazione è misura del tutto insufficiente, perché, se si vuol conservare alla politica una base democratica, il pm non dovrebbe essere scelto per concorso, ma andrebbe eletto con forme sofisticate di selezione, ma pur sempre eletto.

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