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l'analisi
25 Ottobre 2025 - 08:59
Oggi saranno ufficializzate le liste per le elezioni regionali in Campania. Questa tornata elettorale sta mostrando, più che mai, il volto di una politica regionale in continuo movimento: consiglieri uscenti che cambiano schieramento, passano da destra a sinistra e viceversa, si spostano da una coalizione all’altra in una frenetica ricerca di collocazione e sopravvivenza politica. Non è più questione di singole scelte personali, ma di un fenomeno diffuso di transumanza politica, che oggi si manifesta in modo sistematico e plateale, diventando un tratto caratteristico dell'attuale competizione elettorale.
Il cambio di casacca, un tempo percepito come segno di opportunismo, oggi non scandalizza più nessuno. È diventato parte del paesaggio politico, un gesto normalizzato.
Tuttavia, non si era mai assistito a un fenomeno così massiccio e trasversale come quello in corso. Ormai non contano più la coerenza e la visione, ma la prospettiva di rielezione; non l’appartenenza, ma la garanzia di restare nel gioco.
Ogni regola di buon senso sembra essere saltata. La politica, almeno quella regionale ma l’analisi è facilmente estendibile ad ogni livello, appare ridotta a una competizione per la sopravvivenza, dove ogni scelta è tattica e quasi mai ideale.
Eppure, sarebbe troppo facile fermarsi alla condanna morale dei candidati che si ricollocano. In realtà, la loro è una “risposta immunitaria” a un sistema partitico ormai inesistente, una forma di adattamento a un contesto che non offre più punti di riferimento stabili.
Gli attori politici regionali si muovono dentro un vuoto di riferimenti: sanno bene che, venuto meno il sistema tradizionale dei partiti, chi non viene rieletto è semplicemente fuori.
Il mancato rinnovo del mandato equivale oggi a una sorta di espulsione dalla vita politica attiva, poiché non esiste più un partito vero alle spalle, capace di garantire continuità, formazione e partecipazione anche a chi non siede temporaneamente nelle istituzioni.
In questo senso, i consiglieri uscenti che si spostano da una lista all’altra alla ricerca di sopravvivenza non sono la causa del problema, ma il prodotto di un sistema degenerato e autoreferenziale. Di certo, però, essi non ne rappresentano la soluzione anzi, ne perpetuano gli effetti, alimentando la spirale della provvisorietà.
È ormai sotto gli occhi di tutti che, al posto del “classico” sistema dei partiti strutturati, solidi, riconoscibili e caratterizzati da una democrazia interna, operano oggi aggregazioni elettorali effimere e gruppi di potere locali, spesso raccolti intorno al consigliere o al deputato di riferimento, che spostano pacchetti di voti secondo logiche di opportunità.
È una politica che non nasce da un’idea, ma da un calcolo; non si fonda sulla visione, ma sull’occasione. L’effetto di tutto ciò è duplice e devastante: gli elettori, disillusi, disertano le urne; e coloro che sarebbero animati da buone intenzioni, soprattutto tra i più giovani, si tengono alla larga dalla politica.
Ma la circostanza più triste è che, diciamocelo con franchezza, agli attori di questo teatro elettorale interessa ormai ben poco della partecipazione. Il voto “organizzato” — quello garantito dalle reti di fedeltà personali e dai sistemi di potere locali — è comunque assicurato.
L’astensionismo, ormai, non è più un problema ma un dato strutturale, divenuto quasi una componente funzionale al sistema stesso, che si regge su minoranze organizzate e fedeli.
In questo scenario, ciò che scompare è il voto di opinione, cioè l’idea che il voto possa ancora essere espressione di un pensiero libero e di un giudizio politico.
E così, indipendentemente da quale schieramento dovesse risultare vincitore, a perdere saranno comunque i cittadini. Perché a ogni elezione che si riduce a un esercizio di sopravvivenza — e non di rappresentanza — si consuma un ulteriore passo nella crisi della democrazia e del senso stesso della partecipazione politica.
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